Avrebbe compiuto trent’anni a settembre: a due anni dalla scomparsa il Jewish Museum di Londra ricorda Amy Winehouse. In mostra cimeli e intimità assortite, per un ritratto che sorvola sugli eccessi e si concentra sul passato
I memorabilia appagano i più inconfessabili istinti feticisti, camminando sul filo sottile che separa la sana curiosità dalla più maniacale morbosità. Il mito si eterna nell’oggetto, sacrario dall’infinito potenziale evocativo: capita un po’ ovunque e un po’ per qualsiasi personalità dall’appeal pop. Capita anche per Amy Winehouse, sventurata vestale della musica celebrata nel Jewish Museum […]
I memorabilia appagano i più inconfessabili istinti feticisti, camminando sul filo sottile che separa la sana curiosità dalla più maniacale morbosità. Il mito si eterna nell’oggetto, sacrario dall’infinito potenziale evocativo: capita un po’ ovunque e un po’ per qualsiasi personalità dall’appeal pop. Capita anche per Amy Winehouse, sventurata vestale della musica celebrata nel Jewish Museum di Londra, nel giorno di quello che sarebbe stato il suo trentesimo compleanno. L’idea è quella di rivendicare i valori identitari della ragazza, ribadire il suo legame con la famiglia e con le radici ebraiche; va in scena una mostra che promette di richiamare fan a frotte, sventolando sotto il naso di chi ama la spettacolarizzazione del dolore prede decisamente succulente. Ecco il libro di Snoopy che il fratello Alex leggeva alla piccola Amy, ecco il bancone da bar vintage che si era fatta installare nell’appartamento di Camden Square, rifugio dove nascondersi dall’assalto dei paparazzi. Ecco i vestiti, dalla divisa della Sylvia Young School all’abito di scena per il debutto live alla tv americana, in quella fosse dei leoni che è il salotto di David Letterman. E poi dischi, chitarre, fotografie, pass per concerti; la ricostruzione di un albero genealogico che mette in fila Benjamin e Fanny, i bisnonni di origine bielorussa con bottega di barbiere su Commercial Street e nonna Cynthia, che da giovane flirtava con i jazzisti. Un ritratto oleografico, agiografia acritica che cancella il tormento, ingrediente essenziale per determinare la fortuna mediatica, e l’intima apocalisse, della prima icona del nuovo millennio.
– Francesco Sala
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