Lido Updates: Stray Dogs, l’ultimo capolavoro di Tsai Ming Liang. che sceglie di ritirarsi dalle scene con un Lacrimosa. Che somiglia più alla videoarte che al cinema…
L’ultimo film arrivato in Italia di Tsai Ming Liang era l’assurdo, geniale Gusto dell’anguria (di cui qui sotto trovate un estratto). Una specie di porno musical esistenzialista, isterico, semi-muto e sofisticatissimo. Lui di origini malesiane, ma trapiantato a Taipei, ha una lunga storia con i festival europei, che lo hanno sempre accolto a braccia aperte […]
L’ultimo film arrivato in Italia di Tsai Ming Liang era l’assurdo, geniale Gusto dell’anguria (di cui qui sotto trovate un estratto). Una specie di porno musical esistenzialista, isterico, semi-muto e sofisticatissimo. Lui di origini malesiane, ma trapiantato a Taipei, ha una lunga storia con i festival europei, che lo hanno sempre accolto a braccia aperte e premiato per quella particolare visione del mondo lucida e dolorosa, da Cannes (The Hole-Il Buco 1998, Che ora è laggiu? 2001) a Berlino (Il gusto dell’anguria 2005), a Venezia (Leone d’Oro con Vive l’amour!, 1994). Ma quest’anno in laguna ha davvero superato ogni previsione.
Con Stray Dogs ritorna sui temi e lo stile dei primi film, ma li porta alle estreme conseguenze. Alternando campi lunghi e lunghissimi e piani sequenza in primi e primissimi piani fissi crea come dei vuoti d’aria filmici in cui l’equilibrio dello spettatore è messo in serio pericolo. Ai rumori sordi della città dove Hsiao Kang regge cartelli come uomo sandwich e al vociare degli ipermercati del centro di Taipei, dove si aggirano in cerca di cibo i suoi due figli, si alternano lacerti di parole e storie su tristi e lacrimosi palazzi abbandonati nei boschi. Le inquadrature sghembe rinchiudono i personaggi in una relatività escheriana, le strutture vitree sembrano imprigionare spettri dell’anima e non cessa mai di piovere. Negli interni ed esterni di quella che pare un’installazione contemporanea si consumano scarne, semplici, reiterate operazioni di vita quotidiana, come mangiare, pulire e dormire, ma tutto è alienato. Gesti di insostenibile disperazione: metaforica tragedia antropofaga di qualcuno alla ricerca di un contatto col mondo che è diventato utopia. Il pathos che cresce e la tensione che crolla in risate amare e folli e poi di nuovo, come in un manicomio a cielo aperto, in lacrime e urla strazianti, ma così composte da generare una viscerale e insostenibile empatia. I colori straordinari che vibrano nel buio della notte aggiungono senso: il blu elettrico, il verde oro, il rosso dei cartelli luminosi, le insegne a led lampeggianti ci raccontano qualcos’altro. Un universo interiore che palpita e nonostante tutto si attacca alla vita.
E il finale, poi, un dittico di due inquadrature fisse infinite (approssimativamente un’oretta): nella prima, il protagonista e una donna guardano l’orizzonte, sembra, e lentamente cedono al pianto. Nella seconda è rimasto solo lui nella stessa posizione in cui l’abbiamo lasciato. Ma lo vediamo da dietro e ci accorgiamo che fissa solo un muro. Un muro dipinto di pietre e macerie. Niente davanti se non un’irrimediabile, disperata, fatale solitudine. Se, come è stato detto, questa sarà l’ultima opera di Tsai Ming Liang, il testamento che ci lascia è privo di speranza nel futuro, un luogo distopico privo di una chiara collocazione temporale ai limiti di una possibile umanità. Staring at a wall painting tuttavia potrebbe voler dire cercare consolazione nella contemplazione e nell’arte. Nell’ascetismo la sopravvivenza.
– Federica Polidoro
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