Le mega-gallerie tipo Gagosian, Zwirner, Pace e Hauser&Wirth sono una sciagura per l’arte e gli artisti? Un articolo di Jerry Saltz sul New York Magazine apre il dibattito
Sta facendo discutere abbastanza, non esclusivamente in nord America, un articolo che Jerry Saltz (uno dei più lucidi giornalisti d’arte negli Stati Uniti) ha pubblicato sul numero attualmente in edicola del New York Magazine, rivista dove Saltz scrive da qualche tempo dopo anni e anni come capo dell’arte al Village Voice. Nel mirino di Saltz quelle […]
Sta facendo discutere abbastanza, non esclusivamente in nord America, un articolo che Jerry Saltz (uno dei più lucidi giornalisti d’arte negli Stati Uniti) ha pubblicato sul numero attualmente in edicola del New York Magazine, rivista dove Saltz scrive da qualche tempo dopo anni e anni come capo dell’arte al Village Voice. Nel mirino di Saltz quelle che lui chiama le megas. Le mega gallerie di stazza globale, più potenti di ogni altra gallerie e soprattutto assai più potenti dei musei, sempre più alle prese con budget tagliati. Budget che invece, per quanto riguarda le megas, sono sempre in crescita, anzi illimitati.
Intanto vediamo chi sono le gallerie che Saltz ha deciso di battezzare in quanto megas. Facili da indovinare. Si tratta ovviamente di Gagosian, poi di Hauser&Wirth e ancora di Pace e di David Zwirner. Gallerie che sono sempre dappertutto, che hanno staff enormi, che monopolizzano l’attenzione, che hanno spazi da migliaia di metri quadri in tutto il mondo (basti pensare che Gagosian si appresta ad aprire a Londra la sua quattordicesima galleria worldwide). “Questi grandi mercanti sono appassionati come nessun altro io abbia incontrato” dice Saltz, iniziando però a questo punto la lista dei problemi che, a suo parere, questo sistema comporta: non c’è più dibattito, perché queste gallerie, come invece dovrebbero fare i musei, non propongono più ma celebrano, effettuano non mostre, ma quasi-incoronazioni di artisti che raramente vengono seguiti fin da giovani, ma che invece vengono prelevati – da altre malcapitate gallerie – quando sono nel pieno della carriera. E questo, non sempre ma spesso, determina un declino della creatività per artisti che, di colpo, si trovano ad avere a che fare con fondi senza limiti e spazi enormi. E qui il giornalista americano fa nomi e cognomi: a partire da Takashi Murakami per arrivare a Adel Abdessemed e Mark Bradford, passando per Francesco Vezzoli, Dan Colen, Matthew Day Jackson e Richard Phillips. Tutti artisti che avrebbero avuto un impatto in un certo qual modo negativo nel loro passaggio da una galleria medium size ad una megas.
L’altra conseguenza che le megas avrebbero sul mercato è proprio nei confronti delle gallerie medie. Quelle che stanno subito dopo queste quattro sorelle. Tutte sono impaurite di perdere i loro artisti più importanti, quelli che garantiscono loro i migliori guadagni e tutte, dunque, si lanciano in avventurose corse alla crescita: “dobbiamo cercare di stare dietro allo sviluppo che i nostri artisti hanno”, ha dichiarato Emmauel Perrotin per spiegare la sua apertura a New York dopo Parigi e Hong Kong. Stessa cosa Blum&Poe, che da Los Angeles starebbe pianificando filiali a Tokio e a New York. “Non tutto nelle megas è male”, continua Saltz, “ad esempio nelle ultime stagioni, con i musei in difficoltà, hanno messo in piedi una serie di mostre di livello più che museale. Già, ma che razza di pseudo-musei sono questi? Si tratta comunque di luoghi dove qualità, quantità, disponibilità ed opportunismo spesso risultano valori intercambiabili”. E si tratta di luoghi – così conclude Saltz il suo pamphlet – che hanno raggiunto ormai il “punto di compensazione”, ovvero quel momento in cui consumano la stessa energia che generano. Superato questo punto gli organismi solitamente muoiono, e le megas appaiono come un sistema “troppo grande per non fallire”. In caso contrario, preconizza Saltz, governeranno il mondo per alcuni milioni di anni…
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