L’omaggio migliore a Pellizza da Volpedo? Non punire il suo “Quarto Stato” con una posizione infelice: inaugurazione con polemica al Museo del Novecento per la mostra che racconta la lunga gestazione del suo capolavoro
Sarebbe stato imbarazzante lasciare che tutto passasse sotto silenzio, applaudirsi e brindare a Prosecco lasciando nell’aria l’ombra ingombrante di una questione irrisolta, vecchia quanto è vecchio il Museo del Novecento. Ovvero giovane, ma non per questo meno spinosa e fastidiosa. A togliere le castagne dal fuoco – o a metterle, dipende dai punti di vista […]
Sarebbe stato imbarazzante lasciare che tutto passasse sotto silenzio, applaudirsi e brindare a Prosecco lasciando nell’aria l’ombra ingombrante di una questione irrisolta, vecchia quanto è vecchio il Museo del Novecento. Ovvero giovane, ma non per questo meno spinosa e fastidiosa. A togliere le castagne dal fuoco – o a metterle, dipende dai punti di vista – ci pensa lei. Aurora Scotti viola ogni stucchevole reverenza e antepone giustamente il buon senso al rispetto dell’ospitalità: alza il dito e lo dice, senza sbottare ma con educata fermezza, che il re è nudo. Lo fa dal tavolo degli oratori della mostra con cui racconta la lunga, complessa e tormentata gestazione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, un tempo alla Villa Reale e poi traslato all’Arengario, in quella che la Scotti non ha remore nel tornare a definire una posizione infelice. Spazio angusto per un lavoro che con i suoi cinque metri mezzo per due e ottanta avrebbe bisogno di respirare; scatola buia che non rende giustizia alla qualità pittorica, vetro di protezione troppo distante dalla tela e quindi caleidoscopio di ombre e riflessi. Botta e risposta fuoriprogramma – ce ne fossero! Le preview stampa sono solite traccheggiare nell’autocompiacimento – con la direttrice del museo Marina Pugliese: il Quarto Stato si porta dietro, volente o nolente, una carica ideologica che lo mette implicitamente a rischio vandalismo. Per cui il vetro protettivo è d’obbligo. E la questione si chiude qui, anche se non è scritto da nessuna parte che debba essere messo male, troppo distante da un quadro che paga l’errore iniziale di una collocazione sfortunata.
Tolto lo scambio di vedute resta l’omaggio, completo e definitivo, ad un quadro che resta icona vera del Novecento: non tanto per meriti intrinseci, forse, ma per la sua inconsapevole capacità di suggestionare l’immaginario collettivo, limite e fortuna di un’opera che tra calendari sindacali e tessere di partito, vignette satiriche e manifesti ha attraversato tutto il secolo breve. In mostra non c’è traccia di tutto ciò, si screma la retorica e si torna doverosamente all’essenza delle cose: alla mano sublime che traccia disegni preparatorie di spettacolare qualità, alle differenze formali tra le diverse versioni del quadro, dalla Fiumana in arrivo da Brera fino al primigenio Ambasciatori della fame; si evoca la caligine di un pomeriggio di sole in quella Piazza Malaspina (1892) che sarà teatro della scena. Chiudendo con un guizzo di contemporaneità, nel My Fourth Homage di Massimo Bartolini, freschissima acquisizione del museo.
– Francesco Sala
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