Ermanno Olmi scenografo a Brera: ecco la collocazione pensata dal regista per il “Cristo morto” di Andrea Mantegna. Con il riallestimento emozionale della sala dedicata ai maestri del Rinascimento veneto
Ci voleva un non-artista, un non-architetto, un non-designer e un non-scenografo per sanare uno tra i piccoli grandi atavici torti museografici di Brera. Ci voleva quello che per sua stessa ammissione è, di fatto, un ignorante della materia. Ci voleva un puro di cuore: condizione, questa, che reputa necessaria per approcciare con giusto metodo un […]
Ci voleva un non-artista, un non-architetto, un non-designer e un non-scenografo per sanare uno tra i piccoli grandi atavici torti museografici di Brera. Ci voleva quello che per sua stessa ammissione è, di fatto, un ignorante della materia. Ci voleva un puro di cuore: condizione, questa, che reputa necessaria per approcciare con giusto metodo un pezzo fondamentale del Rinascimento. Ci voleva, insomma, Ermanno Olmi per ripensare la collocazione del Cristo morto di Andrea Mantegna; e con la sua quella delle altre opere della Sala VI della Pinacoteca, partendo dagli autografi di Giovanni Bellini e arrivando al San Sebastiano di Liberale da Verona, passando per le monumentali scene di gruppo di Vittore Carpaccio.
Operazione tutta emotiva quella condotta dal regista, che concepisce lo spazio come naturale galleria, cavalcata trionfale che conduce alla Pietà di Bellini, altro capolavoro strappato ad un allestimento superficiale e banale, alla condanna di opera tra le tante, e consegnato ad una logica e doverosa posizione privilegiata. Il Bellini occupa quello che, di fatto, è un tramezzo; confine che cela un antro buio, scarno, povero, come scavato nel cuore di tenebra dell’artista. Ecco lì il Cristo Morto: in posizione ribassata, quasi a chiedere una pietosa genuflessione; attorniato dalle tenebre, senza altri riferimenti se non la sua stessa luce. Nessuna concessione alla monumentalità, alle raffinatezze paludate: vince il rispetto per un’opera che è nata nell’intimità e lì deve rimanere.
L’idea di Olmi parte dalle ultime ricerche d’archivio condotte dalla Soprintendente di Brera Sandrina Bandera e dalla lettura critica di un non-critico (ma filosofo) come Giovanni Reale: il volto del Cristo è quello dello stesso Mantegna, il dolore esorcizzato nella figura del Figlio di Dio è dolore di padre, pianto per la perdita dell’amatissimo figlio Girolamo. A cui apparterrebbe il volto della terza figura presente nel compianto, di cui si riconosce appena la bocca. Faccia ragliata nei propri lineamenti, obliata dalla morte. Una nuova lettura interpretativa, che corregge seppur di poco la datazione dell’opera – i documenti contestualizzano la morte di Girolamo al 1484; una teoria che si presta ad un allestimento in stile “palinsesto”. Dietro la manifesta, luminosa e canonica sofferenza pubblica del Bellini ecco quella privata, pudica e apparentemente inconsolabile del Mantegna. In realtà pacifica, già superata nei lineamenti distesi del volto poggiato esanime sulla pietra del sepolcro, nella profondità del significato dogmatico dell’opera. Perché, per dirla insieme a Reale, “con la morte di Cristo muore la Morte”. Ed è dunque nella fede che il pittore trova soddisfazione.
– Francesco Sala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati