Il Quarto Stato di Elisabetta Canalis. Polemica per il promo del programma Zelig One che “rilegge” il bistrattato capolavoro di Pellizza da Volpedo
A qualche anno dall’inaugurazione del Museo del Novecento a Milano, in molti ancora soffrono la posizione infelice di uno dei maggiori capolavori del Novecento italiano, Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. L’opera, infatti, da Villa Reale fu trasferita all’Arengario in una nicchia collocata lungo la rampa elicoidale progettata da Italo Rota; spazio decisamente […]
A qualche anno dall’inaugurazione del Museo del Novecento a Milano, in molti ancora soffrono la posizione infelice di uno dei maggiori capolavori del Novecento italiano, Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. L’opera, infatti, da Villa Reale fu trasferita all’Arengario in una nicchia collocata lungo la rampa elicoidale progettata da Italo Rota; spazio decisamente angusto per un’opera di oltre cinque metri, la cui tecnica necessita una distanza minima per poter essere goduta appieno.
Allestimento a parte, ciò che lascia basiti ora è il nuovo promo del programma televisivo Zelig One, che reinterpreta in chiave “comica” lo sventurato capolavoro. Grazie alla trovata di Marco Bertini, promotor di Italia 1, i protagonisti della trasmissione vestono i panni dei lavoratori di fine Ottocento, pronti per una protesta sociale. E proprio mentre “gli agitatori di risate popolari vanno verso il loro avvenire”, arriva la bella Elisabetta Canalis, con un elegante trench rosa, a interrompere l’epica marcia del gruppo. “Ci divertiva l’idea di reinventare un’icona così classica come Il Quarto Stato e riportarla nel mondo popolare della televisione”, confessano gli ideatori al settimanale Oggi.
In effetti, il Quarto Stato è al tempo stesso icona del Novecento e opera dalla fortissima carica ideologica. Proprio per questo risulta difficile capire il perché della decisione di ridurre il suo prestigio storico a una sterile satira; mischiare il sacro col profano, sottraendo all’opera il suo significato e attribuendole una povertà di suoni, di gesti e di significati. Questo irrispettoso uso delle immagini spoglia i capolavori dell’arte e li violenta privandoli del loro incanto. Le opere d’arte non possono, per loro intrinseca natura, essere considerate dei prodotti di marketing. E questo l’aveva capito bene già qualche anno fa Jean Clair, quando in La crisi dei musei, scriveva: “Nella società mercantile dell’inizio di questo secolo è diventata una consuetudine diffusa quella di utilizzare il nome di un’opera che si credeva protetta per natura – un’opera dello spirito, unica e incomparabile, che è indice come l’essere umano di un principium individuationis – allo scopo di vendere i prodotti insignificanti e ridicoli di un’industria. Non molto tempo fa, Vermeer e la sua Lattaia per commercializzare i vasetti di yogurt, o un autoritratto di van Gogh per celebrare dei coloranti industriali. Questi nomi sono diventati di dominio pubblico. Non c’è modo di proteggerli”.
Non si tratta, dunque, di considerare o meno la cultura alta “impopolare”. L’arte, infatti, può risultare popolare senza necessariamente cadere nel ridicolo o nel superfluo. Per renderla popolare probabilmente basterebbe farla tornare tra i banchi di scuola. Proprio in questi giorni è in corso a Milano una mostra che illustra i disegni preparatori che Pellizza da Volpedo realizzò durante i dieci anni di studi che portarono all’elaborazione di Il Quarto Stato. Dieci lunghi anni di ricerca appassionata scherniti in un attimo da una pubblicità inopportuna…
– Elisabetta Masala
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