“Il contemporaneo? Mi annoia”. Così parlò Luigi Presicce, in dialogo a Milano con Caroline Corbetta per chiudere la sua personale alla Galleria Bianconi: un talk serrato dagli inattesi risvolti politici
Tappeti stesi a terra e cuscini, piccola ressa composta di critici curatori collezionisti advisor blogger giornalisti hipster intellettuali perdigiorno presenzialisti studenti e artisti. Raccolti attorno al divanetto presidenziale su cui si presenta assiso Luigi Presicce: cala il sipario, alla Galleria Bianconi di Milano, sull’articolato percorso che lo ha visto prima inscenare la performance L’invenzione del […]
Tappeti stesi a terra e cuscini, piccola ressa composta di critici curatori collezionisti advisor blogger giornalisti hipster intellettuali perdigiorno presenzialisti studenti e artisti. Raccolti attorno al divanetto presidenziale su cui si presenta assiso Luigi Presicce: cala il sipario, alla Galleria Bianconi di Milano, sull’articolato percorso che lo ha visto prima inscenare la performance L’invenzione del busto, poi traslare – trasfigurare – il suo rocambolesco e caotico studio nella mostra Privata Vanitas. Arriva il momento, dopo quasi tre mesi di lavoro, di voltare pagina. Sfogliano quelle del libro che raccoglie la lettura critica di Andrew Berardini e una lunga chiacchierata con Caroline Corbetta, scambio dialettico che si ripete ora nella dimensione live. Complice un pubblico reattivo e combattivo, pugnace nel cercare di forzare il muro dell’artista asceta. Etereo, impalpabile, inafferrabile; secco come ghiaccio nel portare con fermezza gandhiana le proprie ragioni: monocorde, quasi inintelligibile nel timbro sotterraneo di una voce che però dice e non si nasconde, reagisce alle provocazioni, rilancia. Partendo dal nodo fondamentale di un’arte, la sua, in fin dei conti metafisica, enigmatica nella stratificazione di rimandi che stordiscono e ubriacano. Citazionismi? No, semplici citazioni. Che non è nemmeno necessario cogliere nella loro precisione, se è vero che Presicce si propone come obiettivo ultimo di restituire il concetto di “bellezza come grammatica dell’essere italiano”, nella condivisione di un patrimonio visuale che è linguaggio comune. Puoi non sapere che una tavola d’altare è stata dipinta da Bernardo Daddi o da Agnolo Gaddi, puoi non leggere il significato iconografico dei colori nel manto della Vergine o ignorare il perché un santo brandisce proprio il ramo di quella pianta: ma il riferimento all’arte del passato, ad un’arte ancestrale, ti tocca come il richiamo del sangue. Punta su questo effetto magico Presicce, che ritiene l’essere italiano una “responsabilità”, proprio in virtù del carico di un background che pesa come un macigno. E allora, proprio perché si è perso un “approccio da storico”, l’artista deve caricarsi del ruolo politico di testimone che risarcisce l’opera di un’etica perduta. È su questa fascinazione per le radici che si dipana un’arte che guarda lontano dal contemporaneo perché “mi annoia” e fissa i suoi orizzonti oltre un Caravaggio “troppo moderno”.
– Francesco Sala
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