La spending review non perdona. E alla Farnesina affilano le cesoie: a rischio diversi Istituti Italiani di Cultura. Chiuderli? Gli intellettuali non ci stanno. Ma siamo certi che sia un male?
La Farnesina riorganizza la sua rete di sedi italiane all’estero. La proposta è quella di chiudere 32 strutture, tra Ambasciate, Consolati, Sportelli Consolari e Istituti Italiani di Cultura. In nome della spending review. Subbuglio, sia in patria che oltreconfine, tra le fila di diplomatici, consoli, assistenti e addetti alle varie attività culturali. Con l’opinione pubblica che, […]
La Farnesina riorganizza la sua rete di sedi italiane all’estero. La proposta è quella di chiudere 32 strutture, tra Ambasciate, Consolati, Sportelli Consolari e Istituti Italiani di Cultura. In nome della spending review. Subbuglio, sia in patria che oltreconfine, tra le fila di diplomatici, consoli, assistenti e addetti alle varie attività culturali. Con l’opinione pubblica che, naturalmente, alla notizia non reagisce bene: chiudere queste case degli italiani in terra straniera, soprattutto per i nostri emigranti, suona come un tradimento, un gesto di menefreghismo, una mortificazione del prestigio della Nazione nel mondo. Tanto che è giunta la classica lettera firmata da vari intellettuali, riferita al caso specifico degli Istituti di Cultura: personaggi come gli immancabili Salvatore Settis, Nanni Balestrini, Dario Fo, Umberto Eco, ma anche Maurizio Bettini, Erri De Luca, Linda Martino, Ambrogio Sparagna, Claudio Magris, Philippe Daverio, Remo Bodei, Emma Dante e molti altri, hanno già apposto le loro firme a un testo che recita così: “Si tratta di istituzioni pubbliche in cui centinaia di cittadini stranieri studiano la nostra lingua e conoscono la nostra cultura, di centri in cui si possono incontrare direttamente, al di fuori dei nostri confini, i principali protagonisti del nostro cinema, della nostra letteratura, della nostra arte, della ricerca scientifica, imparando ad amare la bellezza e la ricchezza del nostro paese. Basterebbe quest’osservazione a far comprendere al governo italiano la gravità del passo che sta per compiere”.
Gli IIC che rischiano di sparire sono quelli di Lione, Lussemburgo, Salonicco, Stoccarda, oltre alle sezioni distaccate di Wolfsburg, Francoforte, Vancouver, Ankara, Grenoble e Innsbruck. Un’operazione di revisione, tagliando tutto il tagliabile. Ma è davvero necessario che i tagli colpiscano luoghi in cui si fanno (o si dovrebbero fare) formazione e approfondimento culturale? La prima risposta logica è no, ci mancherebbe: “È sufficiente pensare, in questo caso, a quanti studenti o utenti degli Istituti prossimi a chiudere scelgono di visitare il nostro paese, di acquistarne i prodotti, di farvi investimenti. Non a caso gli altri paesi europei, anche quelli pesantemente toccati dalla crisi come la Spagna, assegnano a questo settore cifre notevolmente superiori a quelle spese dal nostro paese”. Ma di che cifre si parla, quale reale risparmio ne verrebbe? Una roba esigua: meno di un milione di euro annui, sottratti dal complessivo budget di 12 milioni che lo Stato riserva agi IIC del mondo.
Contraria anche la Commissione Affari Esteri della Camera, che invita compatta il Governo a non procedere con le chiusure, scegliendo, piuttosto, al strada del potenziamento e della valorizzazione, portando avanti la tanto invocata “proiezione strategica del sistema Italia nel mondo”.
Tutto giusto. Ma anche no. Nel senso che, a fronte di diversi Istituti ben diretti, che funzionano a dovere, altri non tengono il passo, lasciando spazio anche a iniziative deboli, marchette istituzionali e attività di profilo non proprio internazionale. Gli IIC, guidati da direttori scelti su nomina diretta da parte del Ministero, in assenza di concorsi e di criteri, producono sia eccellenza che approssimazione, qualità ma anche mediocrità. E allora, forse, con l’immane crisi che c’è, la sforbiciata un senso ce l’ha. A cosa serve tenere aperti una miriade di Istituti, se poi barcollano per la scarsità di fondi? A che serve se l’Italia non è in grado di piazzarvi dirigenti e personale capace di fare fundraising e di gestire con rigore? Perchè essere ovunque, in nome della cultura e del made in Italy, se poi non si è all’altezza del compito? Perché perseverare, in certi casi, nel vizio tutto italiano dell’iper burocrazia, della raccomandazione, del pressapochismo?
Forse il senso, in questa fase storica di crollo e di passaggio, è nella capacità di fissare pochi obiettivi, di puntare all’eccellenza, di concentrare le esigue risorse. Nella consapevolezza dei propri limiti. Evitando di disperdere, di abbozzare, di strafare o peggio, di ‘fare tanto per fare’. Riflessione impopolare e certamente provocatoria, ma utile: o si cambia direzione, si riforma e si riqualifica davvero, oppure si sceglie la via della razionalizzazione. Il tempo della crisi è spietato. E nell’esercizio della sintesi e della scrematura, si prepara il tempo prossimo venturo. Quello di una fioritura nuova.
– Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati