Morto a Parigi a 92 anni il grande regista Alain Resnais, il padrino della Nouvelle Vague Française. “Apre nuove prospettive al cinema”: così lo premiava pochi mesi fa il Festival di Berlino
Se è vero, come raccontava Erodoto, che felice è chi muore felice, Alain Resnais deve essere un grande esempio. Il cineasta parte da questo mondo con una straordinaria tempistica cinematografica, non solo perché stasera si celebrano gli Oscar (chissà se il copione verrà alterato per rendere omaggio alla dipartita), ma proprio perché furono gli Oscar […]
Se è vero, come raccontava Erodoto, che felice è chi muore felice, Alain Resnais deve essere un grande esempio. Il cineasta parte da questo mondo con una straordinaria tempistica cinematografica, non solo perché stasera si celebrano gli Oscar (chissà se il copione verrà alterato per rendere omaggio alla dipartita), ma proprio perché furono gli Oscar a consacrarlo nel 1949 per il documentario su van Gogh. In questa simmetria spaventosamente bunueliana in cui il caso sembra solo l’elemento di un copione, si incastonano una serie sterminata di capolavori, tutti diversi, tutti sperimentali fino all’ultimo Life of Riley presentato al Festival di Berlino due settimane fa, con cui Resnais ha incassato l’Orso d’Argento “per il film che apre nuove prospettive al cinema”.
Questo accadeva a 92 anni. Eh si, quasi un intero secolo sulle spalle e una visione della vita sempre fresca, Resnais è stato tra i padri fondatori della Nouvelle Vague Française, quelli della Rive Gauche, i più estremi. Ha segnato con i suoi quadri in bianco e nero l’immaginario delle generazioni dagli anni ’60 in poi. Il suo Hiroshima Mon Amour è ancora uno dei capisaldi studiati in tutte le scuole e i corsi di cinema del mondo. Chi non ha visto L’anno scorso a Marienbad non sa cosa può diventare sulla pellicola l’oblio della memoria. Memento non ci sarebbe mai stato senza Muriel, il tempo di un ritorno, anche se non tutti lo ricordano. Che meraviglia Providence, l’unico film in lingua inglese, con un quintetto d’attori da togliere il fiato che include Ellen Burstyn e Dirk Bogard: ecco come le proiezioni di un inconscio letterario diventano il contrappunto di una civiltà in decadenza. Assolutamente imperdibile Mio Zio d’America, un film oggi inspiegabilmente dimenticato, premiato nel 1980 a Cannes col Grand Prix Speciale della Giuria, ispirato alle teorie socio antropologiche del biologo Henry Laborit. Infine tutta l’opera della vecchiaia, con l’ensemble di attori capeggiato dalla sua ultima moglie Sabine Azema.
Alain Resnais aveva la capacità di sorprendere sempre lo spettatore, di farlo riflettere, di affascinarlo con l’ambiguità dell’immanenza. Colpiva con la raffinatezza della composizione dei quadri, delle inquadrature, delle scene. Stordiva con la sofisticatezza e la classe del montaggio (così aveva iniziato la sua carriera). Giocava con le possibilità decostruttive della narrazione, collocando le storie in un tempo sospeso come è quello della coscienza, creando una sorta di tunnel spazio temporali in cui gli impulsi celebrali si privano del peso corporeo e si evolvono in qualcosa di superiore. Molto più di un regista, la sua funzione storica va oltre quella di un semplice teorico o di un grande narratore: lui è stato un ineguagliabile creatore di universi, un demiurgo del pensiero, che ha trovato nel cinema la strada per esprimersi appieno.
– Federica Polidoro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati