Ouverture con polemiche per la Biennale di Sidney. Cinque artisti si ritirano: proteste contro le politiche sull’immigrazione del governo australiano. E c’è di mezzo uno sponsor…
Fervono i preparativi per la Biennale di Sidney, in procinto di inaugurare la sua diciannovesima edizione: opening fissato per il prossimo 21 marzo, in un clima tutt’altro che tranquillo. Cinque artisti, cinque nomi che contano, hanno fatto scoppiare il caso: sono Libia Castro, Ólafur Ólafsson, Charlie Sofo, Gabrielle de Vietri e Ahmet Ögut, protagonisti di un dietrofront a sorpresa. Nessuno di […]
Fervono i preparativi per la Biennale di Sidney, in procinto di inaugurare la sua diciannovesima edizione: opening fissato per il prossimo 21 marzo, in un clima tutt’altro che tranquillo. Cinque artisti, cinque nomi che contano, hanno fatto scoppiare il caso: sono Libia Castro, Ólafur Ólafsson, Charlie Sofo, Gabrielle de Vietri e Ahmet Ögut, protagonisti di un dietrofront a sorpresa. Nessuno di loro prenderà parte alla Biennale. Il motivo? Una denuncia sociale e politica senza sconti.
Succede infatti che tra i main sponsor della rassegna ci sia la Transfield Holdings, società australiana quotata in borsa, che fornisce a livello internazionale servizi in outsourcing di gestione capitali, asset management, progettazione, manutenzione e sviluppo delle infrastrutture. Un colosso imprenditoriale, finito in questi giorni nell’occhio del ciclone per via di una nuovo appalto pubblico del valore di 1,22 miliardi di dollari: toccherà alla Transfield occuparsi, per conto dello Stato, di gestire i due centri di detenzione per candestini di Manus Island e Nauru. Strutture aspramente contestate per il sospetto di violazione dei diritti umani, per l’inadeguatezza delle condizioni igienico-sanierie (confermata anche dai report dell’Alta Commissione per i Rifugiati delle Nazioni Unite) e per l’illegittimità di una misura detentiva a tempo indeterminato, riservata ai richiedenti asilo in fuga da guerre e miseria.
Il 17 febbraio scorso, a Manus Island, isola della Papua Nuova Guinea, è scoppiata una rivolta: dopo due notti di proteste, un violento scontro con la polizia ha portato alla fuga di alcuni migranti. Grave il bollettino di guerra, tra feriti vari e la morte del ventitreenne iraniano Reza Berati.
Intanto, il fronte dell’opposizione politica, le associazioni per la tutela dei diritti umani (Amnesty in testa) e una parte dell’opinione pubblica, continuano a scagliarsi contro le attuali politiche sull’immigrazione, repressive e intransigenti. Da qui la decisione degli artisti di fare un passo indietro, in segno di protesta contro i Ministri Michaelia Cash e Scott Morrison, ma anche contro l’insensibilità di una Biennale legata a uno sponsor filogovernativo.
Nella lettera di ritiro si legge: “Ci troviamo in circostanze politiche urgenti con un governo che alimenta il conflitto contro le persone più vulnerabili del mondo. Abbiamo ritirato i nostri lavori, cancellato i nostri eventi pubblici e rinunciato al nostro compenso”. Distaccata la risposta della Biennale: “Anche se siamo dispiaciuti che cinque lavori non verranno esposti, continueremo a lavorare in queste ultime settimane per installare più di 200 lavori previsti per la mostra, per permettere al pubblico di partecipare a quella che promettiamo sarà una Biennale straordinaria”. Del resto, tirarsi indietro adesso con un super finanziatore avrebbe significato mandare all’aria due anni di lavoro e la più importante kermesse artistica del Paese, con un danno clamoroso. Sacrosanta la coerenza politica e morale degli artisti dissidenti, quanto prevedibile la reazione di una manifestazione – per altro non politicamente connotata – ormai a un passo dall’apertura.
E il Governo? Risponde con fermezza. Linea dura e nessun ripensamento: inchiesta in corso per i fatti gravi del 17 febbraio, ma l’impegno per il contenimento dei flussi migratori sarà “ferreo”. Centri di detenzione off shore inclusi.
– Helga Marsala
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