Dopo Neen tocca a Ñewpressionism: Miltos Manetas presenta anche a Milano il suo nuovo movimento, raccogliendo proseliti tra web e pittura
C’è questa riflessione ad accompagnare molto spesso la figura del reporter in zone di guerra: la sensazione di avvolgente effimera protezione garantita dalla telecamera, dalla reflex; l’illusoria estraneità all’azione che deriva dal filtro di una osservazione schermata, mediata, distanziata. Come se i pochi centimetri di un obiettivo, l’esclusività di un visore, avessero il potere di […]
C’è questa riflessione ad accompagnare molto spesso la figura del reporter in zone di guerra: la sensazione di avvolgente effimera protezione garantita dalla telecamera, dalla reflex; l’illusoria estraneità all’azione che deriva dal filtro di una osservazione schermata, mediata, distanziata. Come se i pochi centimetri di un obiettivo, l’esclusività di un visore, avessero il potere di traslare altrove, allontanare dalle zone calde e rendere dunque – implicitamente – invincibili e intoccabili.
Marcia sul binario inverso il nuovo progetto che Miltos Manetas presenta – dopo l’anteprima romana dello scorso mese di marzo – all’Istituto Svizzero di Milano, ribadendo una necessità di condivisione e comunicazione che sembra in contrasto con l’esacerbato individualismo di oggi. Ma che sa cavalcare con effervescente e positiva virulenza la pervasività dei social media. La teoria è limpida nella sua schiettezza: gli impressionisti uscivano all’aperto per inquadrare e ritrarre la propria visione del reale; per chi fa arte oggi l’urgenza è la medesima, ma in tempi di realtà aumentata – espansa, quasi esplosa – i termini dell’esperienza di aggiornano in modo inevitabile verso ogni tipo di direzione. “Per cui possiamo dipingere anche noi un campo o una collina, ma possiamo allo modo rivolgerci ad una struttura cellulare” spiega Luca Pozzi, tra i primi ad aderire e sostenere quello che l’artista greco ha battezzato Ñewpressionism. Un movimento, una filosofia, una dichiarazione di matura consapevolezza delle meccaniche relazionali e percettive dell’età contemporanea. Semplicemente, chiaramente, un modo di vedere: attraverso un oggetto schermo che non è più, come nel caso del fotografo, un filtro che esclude. Diventa semmai, nella sua declinazione informatizzata, un portale per accedere ad una visione sempre più ampia e articolata del mondo, dove sensibile e sovrasensibile si confondono. Non c’è bisogno della chimica ludica alla Huxley per aprire le nuove porte della percezione: a questo variopinto e articolato gruppo anarchico, quasi un Fluxus 2.0, basta un rooter per passare da una dimensione a un’altra.
Prosegue dopo l’operazione Neen – il movimento web lanciato nel 2000 e subito entrato nella sfera di interesse di Larry Gagosian – il lavoro di Manetas verso una sintesi dei nuovi linguaggi espressivi. Lo fa con una mostra allestita come se lo spazio fosse quello di un computer: le opere sovrapposte le une alle altre come le finestre lasciate aperte sul desktop, a sottrarsi ossigeno l’un l’altra ma al tempo stesso offrendo inedite letture ipertestuali, velocissime connessioni che negano scientemente la speculazione sul singolo pezzo per favorire la complessità di una visione d’insieme che conferma come il tutto sia più della somma delle sue parti.
Partecipano al progetto, portando ognuno in dote il proprio percorso, nomi che spaziano da Petra Cortright a Priscilla Tea (strepitose le sue astrazioni che amplificano via pittura analogica la grammatica di Photoshop), da Brenna Murphy a Travess Smalley, fino ad Angelo Plessas.
– Francesco Sala
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