Rischia di saltare Manifesta, a San Pietroburgo? Lo sfogo del curatore, Kasper König. Tra omofobia, conflitti politici, guerra in Ucraina. E stipendi non pagati
E non accade solo in Italia che la cultura si areni, una volta sì e una pure, per problemi legati alla politica, alle cattive amministrazioni, alla questione morale nelle sue declinazioni varie ed eventuali. Così, se qui s’impalla il mega progetto Expo, al cospetto di un monumentale imbroglio intessuto tra pubblico e privato, in Russia […]
E non accade solo in Italia che la cultura si areni, una volta sì e una pure, per problemi legati alla politica, alle cattive amministrazioni, alla questione morale nelle sue declinazioni varie ed eventuali. Così, se qui s’impalla il mega progetto Expo, al cospetto di un monumentale imbroglio intessuto tra pubblico e privato, in Russia a soffrire è Manifesta, tra le più importanti kermesse per l’arte contemporanea che, a turno, solca aree geografiche del mondo sempre diverse. Quest’anno il palcoscenico è quello di San Pietroburgo. E tra i primi dissensi legati alle proteste contro la politica repressiva di Putin sul fronte dei diritti civili – dal caso Pussy Riot alle legge contro la “propaganda omosessuale” – fino alle preoccupanti tensioni sbocciate intorno all’Ucraina, arrivano adesso complicazioni economico-amministrative che agitano, ulteriormente, le già torbide acque.
Il curatore Kasper König ha rilasciato nei giorni scorsi un’intervista fuori dai denti all’emittente Deutsche Welle, denunciando l’impasse dei pagamenti al personale russo, da due mesi senza stipendio. Confitti di natura politica, flussi di cassa paralizzati, i conti che non tornano. E König che dichiara, seccamente, la sua difficoltà nel mediare – in assenza di sindacati – tra due sistemi così distanti: quello positivista – quasi religioso – dell’organizzazione statunitense e quello, problematico e impantanato, della realtà locale. Il risultato? “A un mese dall’apertura, siamo in un vicolo cieco. E non si muove assolutamente niente”.
Insomma, ulteriori malumori che si aggiungono a una situazione già minata da atmosfere fosche, insofferenze, veleni, tensioni politiche e civili. E torna, Kasper König, sulla questione omofobia: “L’inchiostro sul mio contratto era ancora fresco quando è stata approvata quella spaventosa legge anti-gay“, ha affermato. “È stato subito chiaro per me che stavo lavorando in un Paese dove la società civile è assente“. Insomma, quell’odioso provvedimento voluto da Putin per limitare in pubblico le manifestazioni d’affetto tra persone dello stesso sesso, la cui eco arrivò fino alle Olimpiadi invernali di Sochi – con tanto di proteste da parte di atleti, giornalisti, Capi di Stato europei – un segno lo ha lasciato anche qui, tra i responsabili di Manifesta. Una sorta di “dittatura latino-americana”, arriva a definirla il curatore, voluta per abortire qualunque speranza di futuro e impulso al cambiamento.
E allora, più in generale, quanto ha senso continuare a lavorare in un contesto che chiede, ad ogni passo, di monitorare questioni etiche, politiche, religiose, sessuali, tra la spinta sempre irriverente dell’arte contemporanea internazionale e la stretta repressiva di un governo ultra conservatore?
Una questione morale, oltre che culturale. Nello sgomento ulteriore provocato dalla tendenza a “reagire passivamente” da parte dei cittadini russi: “È un peccato”, ha aggiunto, “che le cose siano così banalizzate e che non monti alcun conflitto. Il conflitto sarebbe molto positivo in realtà, perché potrebbe portare a cambiare le cose”. E in effetti un tentativo di boicottare l’evento ci fu, già molti mesi addietro, con una petizione lanciata su Change.org, firmata anche da critici e curatori internazionali: l’intento? Far saltare la biennale, per protesta contro gli abusi nei confronti di omosessuali e artisti dissidenti. Quindi un altro episodio, stavolta capitanato dal collettivo russo Chto Delat e supportato da moltissimi artisti, come atto di indignazione per il coinvolgimento della Russia nella guerra civile in Ucraina. L’accusa a König fu di non aver avuto abbastanza coraggio da stoppare la mostra di San Pietroburgo, sacrificando l’arte alla questione politica. “Mi preoccupa un po’”, spiega oggi lui, “quando la gente afferma che la politica è più importante di qualsiasi altra cosa. E che quando le questioni politiche lo chiedano, quelle estetiche ed artistiche debbano mettersi in secondo piano”. Aggiungendo che boicottare, in fondo, serve solo se in ballo c’è un rischio reale: “Ma a Putin, di Manifesta, non gliene può importare di meno”.
Usare l’arte, allora, come strumento per combattere la riluttanza al nuovo e come arma per indurre un sano conflitto culturale. Kasper König denuncia, si lamenta, ma non molla. Spegnere la televisione locale per proteggersi (sottraendosi al “lavaggio del cervello” di Stato), ma spalancare i musei. Credendo ancora nell’impatto – possibile e concreto – dell’arte sulle società.
– Helga Marsala
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