John Kerry benedice Expo 2015: posata a Milano la prima pietra del padiglione americano, in diretta streaming con Washington. Ecco la fotogallery

Entrare nel cantiere di Expo significa compiere un’esperienza surreale. Un’autentica astrazione dalla realtà, che si declina secondo molteplici direzioni dell’assurdo. Da un lato c’è il lato oggettivo, visuale, inequivocabile: è probabile che architetti, ingegneri, direttori dei lavori, capocantieri, operai, muratori, carpentieri, impiantisti, ruspisti abbiano chiarissimo nella mente i passaggi fondamentali della faccenda. E possano affermare […]

Entrare nel cantiere di Expo significa compiere un’esperienza surreale. Un’autentica astrazione dalla realtà, che si declina secondo molteplici direzioni dell’assurdo. Da un lato c’è il lato oggettivo, visuale, inequivocabile: è probabile che architetti, ingegneri, direttori dei lavori, capocantieri, operai, muratori, carpentieri, impiantisti, ruspisti abbiano chiarissimo nella mente i passaggi fondamentali della faccenda. E possano affermare con limpida certezza che la spianata di terra e cemento rasoterra che frigge sotto il sole nel caos degli svincoli tra Rho e Pero sia “a buon punto”; là dove è difficile scorgere segni tangibili, concreti, confortanti e corroboranti. Là dove, in pratica, al di là di mozziconi di impianti idraulici ed effimere tensostrutture è difficile scorgere qualcosa di risolutivo. O anche solo qualcosa. Dall’altro lato c’è la fascinazione per quei nomi stampati su cartelli e bandiere, da Maltauro in poi: sigle che la cronaca ha gettato nel tourbillon delle inchieste su appalti alla meglio avventurosi e disinvolti, ma rimaste – contro tutto e tutti – a presidio di un’avventura dalle mille e più incognite.
La desolazione generale amplifica allora il contagioso entusiasmo a stelle e strisce: collegamento in streaming da Washington per la posa della prima pietra – o meglio: il taglio del nastro e simbolico colpo di vanga – di quello che sarà il Padiglione degli Stati Uniti, con John Kerry a riassumere via satellite il senso dell’impegno americano in questa impresa. Con l’accento puntato sull’idea di una nutrizione 2.0, dove è l’intera filiera dell’alimentare ad essere protagonista e dove si guarda in modo dinamico all’apporto che la ricerca scientifica può dare alla risoluzione del problema della fame. Quella vera.
L’attesa del collegamento è riempita nelle casse da un live di Neil Young, e quindi tutto va più che bene: strabene. Poi la cerimonia, i convenevoli: con Roberto Maroni tende una mano Oltreoceano e riconosce l’impegno dell’amministrazione Obama nel campo della cultura dell’alimentazione, sgranando i dati impietosi sulla disparità tra primo e terzo mondo, indicando la lotta all’obesità come autentico successo politico; mentre Giuliano Pisapia si incarta su una simpatia che evidentemente non gli appartiene, trasformando la cortesia di Kerry (che tra le immagini che evoca in un convincente italiano cita il rito dell’aperitivo) in una pantomima alla lunga un po’ fragile.
C’est la vie. Il carrozzone Expo va avanti, stancamente e faticosamente. Con la speranza nell’ennesimo miracolo italiano, nel fatto che l’arte di arrangiarsi e la capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo sia ancora una volta sufficiente a sfangarla. Ma con il dubbio, insinuante, che in questa occasione possa non bastare.

– Francesco Sala


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Francesco Sala

Francesco Sala

Francesco Sala è nato un mesetto dopo la vittoria dei mondiali. Quelli fichi contro la Germania: non quelli ai rigori contro la Francia. Lo ha fatto (nascere) a Voghera, il che lo rende compaesano di Alberto Arbasino, del papà di…

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