L’artista armeno Mikayel Ohanjanyan vince la seconda edizione delPremio Henraux, dedicato al marmo della Versilia e alla pratica della scultura. Tutte le foto
Negli straordianari paesaggi di cava della regione apuo-versiliese si riflette l’eco dalle vaste pareti bianche, come immense cattedrali a cielo aperto, rivolte verso il mare. La discesa dei blocchi di marmo è lenta e faticosa, mentre il silenzio tutt’attorno è rotto solo dal vociare forte del capolizza. Grossi cavi sostengono i pesi, mentre i mollatori […]
Negli straordianari paesaggi di cava della regione apuo-versiliese si riflette l’eco dalle vaste pareti bianche, come immense cattedrali a cielo aperto, rivolte verso il mare. La discesa dei blocchi di marmo è lenta e faticosa, mentre il silenzio tutt’attorno è rotto solo dal vociare forte del capolizza. Grossi cavi sostengono i pesi, mentre i mollatori esperti allentano i piri e i lizzatori fanno arrivare nuovi tronchi di legno cosparso di grasso, su cui scivolerà “la candida mole che abbaglia”.
Anche a queste immagini antiche si è ispirato il vincitore della seconda edizione del “Premio Fondazione Henraux in Memoria di Erminio Cidonio”, l’armeno Mikayel Ohanjanyan, che con la sua scultura, “Materialità dell’invisibile”, ha saputo magistralmente sviluppare e trasporre in marmo la sua idea di “dare corpo all’ineffabile”. Alla base l’idea filosofica di rovesciare la natura estroversa, assertoria, se non retorica, della scultura, in introversione, cavità, zona di vuoto generata da cavi stretti ad altissima tensione. Il lavoro ricorda visivamente le canape che stringevano i blocchi riquadrati, avviluppando le pareti liscissime del bianco statuario, quando il trasporto a valle si faceva sulle vie di lizza.
L’opera rappresenta un punto di arrivo nel progetto avviato dall’artista con la serie di “prospettive introverse”, dedicata al rapporto fra interno ed esterno: la scultura diventa centro di forze, incrocio di tiranti, generazione di carica. E non è più, essa stessa, forma.
All’annuncio del vincitore, durante la cerimonia di sabato26 luglio a Querceta, sono state svelate le opere a un pubblico selezionatissimo, mentre il capannone – restaurato per l’occasione – si accendeva di mondanità. Philippe D’Averio in abito rosa, uscito di fresco dalla sartoria Gazzillo di Carrara, ci ha tenuto a rifilare una stilettata all’indirizzo del nuovo piano paesaggistico, in fase attuativa ai vertici della Regione Toscana, poiché – ha sottoineato – dalle cave si genera lavoro, e quindi artigianato e industria, arte, cultura e civiltà. Un concetto ribadito da questo premio, sulla falsariga delle Biennali di Carrara che nascono nel 1957. Manifestazioni lodevoli, che riflettono la volontà di alcuni imprenditori del ramo dell’escavazione di incentivare la trasformazione in loco, svolgendo lavorazioni ad altissimo pregio artistico e puntando su teconologie sofisticatissime, sulle insostituibili maestranze del marmo e sulla difesa delle eccellenze del made in Italy.
Unica donna arrivata fra i finalisti, la bolognese Francesca Pasquali, incassa il secondo posto in classifica e non nasconde di avere trovato qualche difficoltà nel trasporre in marmo la sua Frappa, quel raffinato avvolgimento di nastro, tessuto e filamento che ha trovato finora naturali alleati nei materiali industriali, ma anche nelle volgari e coloratissime cannucce. Il risultato è tutto nelle forme sinuose, ripetitive, mordide del suo nuovo progetto, dall’aspetto organico e vibrante.
Terzi classificati ex aequo sono gli “indigeni” Massimiliano Pelletti e Filippo Ciavoli, che portano l’attenzione rispettivamente sulla testa umana e sul corallo. Insieme alle tre finaliste della scorsa edizione, le quattro opere del secondo Premio Henraux resteranno esposte nel parco della Versiliana per tutto il mese di agosto.
– Francesca Alix Nicoli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati