L’Unità stacca la spina. Novant’anni e sentirli tutti: dopo una faticosa trattativa, lo storico quotidiano di sinistra alza bandiera bianca. Lo ricordiamo, tra satira e nostalgia
Lutto annunciato per il mondo dell’editoria di sinistra. L’Unità, storica testata comunista fondata da Antonio Gramsci nel 1924, a novant’anni esatti stacca la spina. Fine di un’icona, di un pezzo di storia d’Italia, di un intero universo politico-culturale. Era ora, pensano i maligni: quelli che da destra sghignazzano (scioccamente), lieti della sconfitta rossa; e quelli […]
Lutto annunciato per il mondo dell’editoria di sinistra. L’Unità, storica testata comunista fondata da Antonio Gramsci nel 1924, a novant’anni esatti stacca la spina. Fine di un’icona, di un pezzo di storia d’Italia, di un intero universo politico-culturale. Era ora, pensano i maligni: quelli che da destra sghignazzano (scioccamente), lieti della sconfitta rossa; e quelli che – meno faziosi ma più rigorosi – consideravano la battaglia in difesa del giornale una forma d’accanimento terapeutico, tra precarietà economica, obsolescenza da tipico foglio di partito, debolezze nella comunicazione e una urticante patina radical chic, molto di nicchia e assai poco popolare.
Checché se ne dica, ogni giornale che muore, ogni voce di peso che si spegne, racconta una sconfitta collettiva. Un inciampo nel terreno incerto della democrazia, che ha sempre sete di parole, di informazioni, di cronache plurali.
E poi ci sono gli affezionati, i lettori (sempre meno: dati Audipress del settembre 2013 stimavano un calo rispetto al semestre precedente del 16,8%) che non mancavano un numero in edicola, i sostenitori ideologici e i simpatizzanti d’area. Inclusi quelli che, passati dall’antiberlusconismo all’antirenzismo, piangono ogni giorno la morte della sinistra italiana. Per loro è lutto davvero. Il terzo, nella biografia dell’Unità. Che durante il fascismo – per l’appunto – aveva già dovuto chiudere i battenti, per ovvie ragioni di censura, e che ancora tra il luglio 2000 e il marzo 2001 aveva interrotto le pubblicazioni, stavolta per questioni economiche. Le stesse che oggi impongono un nuovo stop. Le trattative degli ultimi mesi tra gi azionisti si sono risolte in un nulla di fatto: salvare l’azienda era, evidentemente, una missione impossibile. E la Nuova Iniziativa Editoriale Spa, società editrice ormai in liquidazione, non ha potuto che diffondere il triste annuncio: dal primo agosto 2014 si chiude.
Il penultimo numero piazza in copertina una vignetta strepitosa del grande Sergio Staino, storica firma satirica del quotidiano. Sotto un tappeto di macerie, il tenero Bobo, riferendosi all’ostruzionismo in corso per le riforme istituzionali, esclama: “Speravo fossero emendamenti, invece era proprio L’Unità”. Caustico il titolo – “Hanno ucciso l’Unità” – ed essenziale il contenuto: dopo due pagine di riflessioni, solo colonne bianche. Un’eloquente commiato in forma di provocazione.
Ed è proprio con un tuffo nella migliore satira degli ultimi decenni che vogliamo, anche noi, salutare il quotidiano gramsciano. Staino, in primis, ma anche Andrea Pazienza, Michele Serra, Elle Kappa, Danilo Maramotti, Vauro, Disegni e Caviglia, Riccardo Mannelli, Gianni Allegra, Vincino, pescando fino alle straordinarie pagine di quei fenomeni che furono “Tango” e “Cuore”, supplementi settimanali con cui crebbero le generazioni a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sufficientemente politically uncorrect, ruvidi, pungenti, divertenti, da averne ancora una certa nostalgia. E poi “Emme”, altro allegato di strisce e vignette, uscito tra il 2007 e il 2009, con alcuni dei collaboratori d’annata, e “Virus”, la sua prosecuzione 2.0, pensata come sezione del sito con tanto di contenuti multimediali.
E a scorrere questi pochi ritagli, scelti nel mare magnum di pagine ingiallite, è come rivedere a singhiozzi l’Italia della prima, della seconda e della terza repubblica (provando a capire dove finisca una e dove inizi quella appresso): un album di umoristiche schegge al pepe o al veleno, per raccontare il Paese col sorriso. Dolcemente, amaramente.
– Helga Marsala
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