Tracollo culturale a Roma. Anche Riccardo Muti scappa dal Teatro dell’Opera che sta uccidendo se stesso. Ennesima istituzione senza direttore nella Capitale. E ora? Liquidare, licenziare, ripartire
Riccardo Muti getta la spugna. Dopo una lunga riflessione iniziata la primavera scorsa durante le tormentate prove di Manon Lescaut, il Maestro dà l’addio al teatro dell’Opera di Roma. Cosa è successo? Che su soli 318 votanti (534 avevano diritto al voto, ma il 40% circa ha deciso di non partecipare), 305 si sono […]
Riccardo Muti getta la spugna. Dopo una lunga riflessione iniziata la primavera scorsa durante le tormentate prove di Manon Lescaut, il Maestro dà l’addio al teatro dell’Opera di Roma. Cosa è successo? Che su soli 318 votanti (534 avevano diritto al voto, ma il 40% circa ha deciso di non partecipare), 305 si sono espressi favorevolmente riguardo al piano industriale (e programma di risanamento della finanza aziendale) presentato da Sovrintendente Carlo Fuortes. L’alto livello di assenteismo, un segno di guerriglia strisciante, è stata l’ultima goccia a far traboccare il vaso.
In effetti, nonostante i ringraziamenti di rito per il compito svolto, Muti si è accorto di essere diventato la foglia di fico in mano a gruppuscoli che hanno dominato il teatro per decenni, che Fuortes ha tentato di scalzare ma che sono pronti come non mai a fare sentire, con scioperi selvaggi e simili, la propria determinazione. Da anni il Teatro della Capitale è controllato da una minoranza che impedisce agli altri di lavorare e al pubblico di avere spettacoli di qualità.
Bastano alcune cifre: il teatro fruisce della sovvenzione pubblica per spettatore pagante più alta al mondo, circa mille euro (anche senza tenere conto dei 50 milioni impegnati dal Governo per risanarlo); il complesso orchestrale (oltre 90 elementi che si vorrebbero portare a 110) è doppio rispetto a teatri come la Deustche Oper di Berlino, che però che ogni anno fa oltre 220 recite di opere e balletto (rispetto alle 70 del Teatro dell’Opera). Il personale fruisce di indennità inaudite, in senso etimologico, in quanto mai udite nel resto del mondo, come la trasferta riconosciuta per spettacoli alle Terme di Caracalla, e il privilegio di non dover suonare in due repliche successive, anche se a diversi giorni di distanza. Risultato? Alcune tra le maggiori voci e le principali bacchette si rifiutano di lavorare a Piazza Beniamino Gigli e dintorni, dato che non si hanno certezze sui calendari degli spettacoli.
La scorsa estate oltre due terzi delle maestranze si sono pronunciate contro lo sciopero, ma il teatro è rimasto ugualmente paralizzato dalla tirannia di una minoranza. Non c’è altra strada che la liquidazione, a cui sarebbe illegittimo accompagnare “cassa integrazione in deroga” o altre provvidenze. E chi perderà il lavoro si rivolga al piccolo gruppo che ha causato questa situazione. Se è vero che uno di costoro ha lavorato solo 62 giorni nell’anno scorso, la Procura della Corte dei Conti ha l’obbligo di aprire una procedura per il rimborso coatto dello stipendio, con pignoramento immediato dei beni.
Cosa fare? A nostro parere, che frequentiamo regolarmente il teatro dal 1954, il Sindaco dovrebbe considerare di mettere in liquidazione l’attuale fondazione con licenziamento di tutti i dipendenti. Poi si dovrebbero nominare un commissario ed un direttore artistico (la coppia Fuortes-Vlad va benissimo) per fare funzionare il teatro nelle more di concorsi internazionali per assumere chi ha davvero voglia di lavorare per la musica. Il commissario e il direttore artistico dovrebbero operare come “impresari”, ingaggiando compagnie che vogliono e possono operare a Roma: per esempio diversificando l’offerta (e quindi i prezzi). Ingaggiando compagnie a basso costo (ma di buona qualità) per spettacoli a biglietti accessibili a tutti, specialmente ai giovani (ci sono ottime compagnie stabili in Europa Centrale) e invitando complessi come quelli di Monaco per tournée davvero speciali. Combinando innovazione con tradizione.
– Giuseppe Pennisi
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