Venezia Updates: quel piccione seduto su un ramo a riflettere. La storia intrisa di nonsense, che ha portato il Leone d’Oro a Roy Andersson
Ha vinto il Leone d’Oro, sfilandolo dalle mani di Andrei Konchalovsky, che si è dovuto accontentare dell’argento. Il film di Roy Andersson, con un titolo che fortemente suggestivo, è stata la chicca del festival. Non essendo veramente una commedia, né una tragedia, non vi si può applicare alcuno schema. Inizia in modo buffo ed anche […]
Ha vinto il Leone d’Oro, sfilandolo dalle mani di Andrei Konchalovsky, che si è dovuto accontentare dell’argento. Il film di Roy Andersson, con un titolo che fortemente suggestivo, è stata la chicca del festival. Non essendo veramente una commedia, né una tragedia, non vi si può applicare alcuno schema. Inizia in modo buffo ed anche un po’ lugubre. Ci sono due personaggi che per fattezza e corpulenza ricordano Benny Hill, ma senza connotazione sessuale pruriginosa, si aggirano in un museo di uccelli imbalsamati posti sotto teche, in uno spazio semivuoto. Poi il prologo: tre modi diversi per morire di una morte assurda. Segue una serie di storielle apparentemente non legate tra loro e i cui personaggi cambiano spesso. Due di loro però li identifichiamo come protagonisti perché li ritroviamo a più riprese. Si tratta di una coppia di venditori di scherzi con un campionario limitato a tre oggetti: denti di vampiro con canini extra lunghi, sacchetto di risate e maschera di Zio Dente. Li vedremo lungo il film provare più volte a vendere questi articoli o a riscuotere il loro corrispettivo, mai con esito positivo.
In un bar un giorno arriva Giorgio XII di Svezia, è un re omosessuale e dispotico che porta al seguito un esercito intero: vuol bere un bicchier d’acqua. Un tecnico di laboratorio parla alla finestra, mentre una scimmia è fissata ad una macchina che emana scosse elettriche. Un altro signore sta in un ufficio e regge una pistola in mano. Una casalinga in veste da casa è appoggiata alla credenza della cucina. Tutti ripetono, semi immobili, la stessa frase priva di senso: “Mi fa piacere che vada tutto bene. Mi fa piacere che vada tutto bene”.
I due rappresentanti tornano a dormire da un affittacamere, litigano, poi fanno pace, uno dei due è tormentato dal pensiero di dover incontrare i genitori nell’aldilà. Poi si sente in colpa perché non sa se una cosa brutta a cui pensa sia successa veramente o no. L’apice narrativo si tocca quando un gruppo di colonialisti fanno entrare in un enorme bollitore un gruppo di neri, per il divertimento di una manciata di vecchietti dall’aspetto inoffensivo…
Questo film non si può raccontare. Non si può riassumere. Gli attori sono tutti coperti da due dita di cerone, si muovono poco o niente, in ambienti dai colori cinerei, e usano una recitazione straniata. Il termine brechtiano è quello che si avvicina di più. Tutto è permeato di morte, meno che le due sequenze con gli adolescenti innamorati. La camera lungo tutta la durata del film è sempre immobile, ma su un’inquadratura sghemba. Qualcosa che suggerisce un’idea d’inafferrabilità che però contrasta con l’asfissia del quadro statico. Ciò che ne risulta è un forte senso di vertigine e disorientamento. Anche temporale. Sceneggiatura e dialoghi portati al minimo, con due sequenze cantate esilaranti che usano stessa melodia ma testi pertinenti alla situazione narrata.
Il resto del film ha una colonna sonora che somiglia approssimativamente alla demo di una tastiera elettronica degli anni Ottanta. E qui arriviamo alla conclusione, perché in realtà il film non ha una collocazione temporale esatta. Ha la consistenza e l’approssimazione di un sogno-incubo in cui non si possono distinguere giorni, né ore, né luoghi.
Federica Polidoro
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