Joan Jonas incanta l’Hangar Bicocca: pubblico entusiasta a Milano per “Reanimation”, evoluzione della performance del 2010 già in transito a Documenta
Il suo pubblico la richiama sul palco tre volte, per restituirle in forma di applausi vigorosi e urla di estatico godimento l’energia che – a dispetto dei 77 anni suonati – gli ha scagliato contro senza risparmiarsi, nel corso di un set teso sull’equilibrio costante tra dolcezza e ferocia. Riceve un trattamento da rockstar Joan Jonas, […]
Il suo pubblico la richiama sul palco tre volte, per restituirle in forma di applausi vigorosi e urla di estatico godimento l’energia che – a dispetto dei 77 anni suonati – gli ha scagliato contro senza risparmiarsi, nel corso di un set teso sull’equilibrio costante tra dolcezza e ferocia. Riceve un trattamento da rockstar Joan Jonas, che come i recenti ospiti dell’Hangar Bicocca – da Carsten Nicolai a Ragnar Kjartansson – cede volentieri alla piacevole tradizione che vuole ogni mostra allestita nello spazio powered by Pirelli accompagnarsi a eventi one shot creati per l’occasione. Inevitabile buttarla in performance per chi questo fa, ininterrottamente, dagli Anni Settanta: in scena va allora una nuova evoluzione di Reanimation, il progetto al momento inconcluso – forse perché interminabile, infinito – nato nel 2010 e già due anni fa rimescolato, reimpostato, implementato in quel di Kassel per Documenta.
Jonas assume i panni candidi di un testimone dell’eterno, tramite tra la sfera dell’umano e quella del sovraumano; domina il tempo e lo spazio squadernando la propria personalissima cosmologia, ordinando con un incalzare febbrile, eppure al tempo stesso controllato, l’alternarsi degli elementi. Con la furia dell’aria, dell’acqua, del fuoco e della terra sottolineate da Jason Moran, magnifico nel costruire trame sonore che passano dall’algido ossessivo incalzare dei sintetizzatori e delle drum machine al romantico abbraccio sensuale del pianoforte. Scorrono immagini da profondo nord: case in pietra abbandonate, glabre colline bruciate dal vento, fiordi disabitati, cavalli selvaggi al pascolo; elementi che Jonas prova a imbrigliare nel gesto apotropaico di un tratto che, incerto, tenta disperato di conquistarne i contorni, i dettagli, prima della loro ineluttabile scomparsa. L’incedere si fa sempre più agitato, l’artista lascia la sua postazione per partecipare al rito primordiale di una danza teatralizzata, calzando maschere arcane e battendo il ritmo con l’orgiastico trasporto di uno sciamano, mentre entrano nell’atmosfera fantasmi – quegli stessi spiriti da lei evocati e accarezzati a parole – che si palesano per voce di canti della tradizione Sami.
Joan Jonas è un medium, parla con quella cosa che qualcuno chiama Dio. O forse, meglio, in vece sua: traducendo la lingua dell’assoluto in una brutale e selvaggia bellezza.
– Francesco Sala
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