Amos Gitai a Milano, per presentare il suo prossimo film con una mostra a Palazzo Reale. Nel nome del padre e di Gabriele Basilico
Il balbettio dei kalashnikov copre a sprazzi le urla della folla, mentre un interminabile e lentissimo piano sequenza scorre lungo una strada teatro di conflitto: i soldati rinculano, sparando verso qualcosa che nemmeno vediamo, fuoricampo alla nostra sinistra; mentre si alternano in primo piano uomini e donne, tutti disperate cassandre che ammoniscono lo spettatore, lo […]
Il balbettio dei kalashnikov copre a sprazzi le urla della folla, mentre un interminabile e lentissimo piano sequenza scorre lungo una strada teatro di conflitto: i soldati rinculano, sparando verso qualcosa che nemmeno vediamo, fuoricampo alla nostra sinistra; mentre si alternano in primo piano uomini e donne, tutti disperate cassandre che ammoniscono lo spettatore, lo mettono in guardia con la rabbiosa e terribile ferocia di chi si rende conto di predicare nel deserto. Inascoltato. Recitano frammenti delle profezie di Amos, umile pastore biblico che ottenne la disgrazia del vaticinio e dunque la possibilità di prevedere enormi sventure per il proprio popolo; testi che oggi Amos Gitai recupera e fa propri, allegoria di un’apocalisse contemporanea, in uno dei video che presentano a Milano il suo prossimo progetto.
Non si era forse mai visto anticipare i temi di un film attraverso una mostra: a rompere gli schemi è il regista israeliano, che occupa la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale con appunti visuali fondamentali per entrare nel mood del suo Carpet, titolo presto in lavorazione che racconta attraverso la storia a ritroso di un tappeto pregiato – pezzo d’antiquariato conteso in asta – le vicende di collezionisti e artigiani, valzer di personaggi che si agitano nel vorticoso avvicendarsi dei secoli. In mostra i video e le fotografie che preludono al film, ma anche i magnifici tappeti antichi della collezione di Moshe Tabibnia; ma anche l’omaggio di Gitai a due figure che, nel modo strano e imponderabile che hanno queste situazioni, finiscono per essere innesco e comburente dell’intero progetto. Da un lato il padre del cineasta, Munio Gitai Weinraub, architetto del Bauhaus fuggito dalla Germania nazista per dare il proprio contributo alla nascita di Israele; dall’altro Gabriele Basilico, l’amico artista che tante energie ha speso per raccontare il disastro del Libano, terra che Gitai avverte come sorella della propria.
Il filo annodato nel telaio del maestro artigiano, allora, altro non è se non filo della memoria; a cui aggrapparsi per non perdersi nel dedalo confuso del presente, nel caos di se stessi: come emerge con struggente chiarezza in Lullaby to my father e Talkin to Gabriele, installazioni che accompagnano Carpet in quella che suona come una sinfonia in tre movimenti, opera d’arte totale che sa unire con armonia più linguaggi espressivi.
– Francesco Sala
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