Baruchello incontra Latham a Milano: ecco le immagini dalla doppia mostra alla Triennale, nuovo passaggio del programma firmato da Bonaspetti. Qui con il MADRE
Sarà che l’approssimarsi del Natale infonde anche negli animi più asfittici e rancidi un sentimento di bonomia (benché rachitica), ma questa volta entrare alla Triennale fa sgranare gli occhi come Gene Wilder e ammettere che sì: si può fare! Ovvero si può allestire bene – parlando in senso museografico – anche in uno spazio tanto […]
Sarà che l’approssimarsi del Natale infonde anche negli animi più asfittici e rancidi un sentimento di bonomia (benché rachitica), ma questa volta entrare alla Triennale fa sgranare gli occhi come Gene Wilder e ammettere che sì: si può fare! Ovvero si può allestire bene – parlando in senso museografico – anche in uno spazio tanto burbero, vincolante e quindi per certi aspetti limitante; si può portare un progetto scientificamente molto solido anche in una città pigra come Milano, senza cedere necessariamente al nome da blockbuster, anzi; si può trovare una convergenza tra collezioni pubbliche e realtà private (nel caso di Latham la Lisson Gallery), rendendo il giusto omaggio a personalità protagoniste di un percorso eccentrico e per certi versi eretico. Si può, insomma, osare. Il doppio colpo in scena in queste settimane in viale Alemagna dimostra quanto sia usato a sproposito dalle nostre parti il concetto di grande mostra, confinato all’elefantiasi della firma – dell’artista, del curatore, del produttore; di tutti e tre messi insieme – spesso a discapito del prodotto culturale in sé: l’antologica di John Latham e la personale di Gianfranco Baruchello, straordinariamente a braccetto, sono due grandi mostre nel senso più completo che l’idea sottende, e qualificano in modo totale l’incarico di Edoardo Bonaspetti come direttore artistico di Triennale Arte.
La firma in calce è quella di Alessandro Rabottini, che sfrutta nel caso di Baruchello il suo lavoro di peacemaker nel delicatissimo rapporto tra MADRE e collezionisti seguito ai traumi della gestione Cicelyn: vengono allora dalla rinata collezione del museo napoletano i video che costituiscono il grosso della personale – con un’indagine dagli Anni Sessanta ad oggi –, a conferma della raggiunta maturità di un’istituzione che ha la forza di co-produrre e far girare mostre di respiro davvero internazionale. E poi c’è Latham, che ha fatto Documenta nel ’77 e che prima della morte ha avuto il riconoscimento di personali al MoMA PS1 e alla Tate Britain; ma soprattutto un artista che conobbe il lavoro di Burri e Fontana e a Milano arrivò nei primi Anni Sessanta con Pierre Restany: non un alieno insomma, semmai un artista che riesce in modo implicito a farci pensare alla rilevanza della scena milanese. Ad oggi ridimensionato: a meno che mostre come queste non passino dal canone dell’episodio a quello della consuetudine.
– Francesco Sala
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