Il sassolino nella scarpa. Ma perché quando si parla d’arte i giornalisti si sentono autorizzati a scrivere cazzate? Come il Gauguin venduto “in asta” a 300 milioni di dollari
Vi immaginate se un giornalista scrivesse – o dicesse, in un telegiornale – che il Presidente della Repubblica è stato eletto dal consiglio direttivo del CONI? O che lo spread lo stabilisce Carlo Conti, finito di girare gli spot di Sanremo? No, perché oggi – facendo le dovute proporzioni – per chi si occupa d’arte […]
Vi immaginate se un giornalista scrivesse – o dicesse, in un telegiornale – che il Presidente della Repubblica è stato eletto dal consiglio direttivo del CONI? O che lo spread lo stabilisce Carlo Conti, finito di girare gli spot di Sanremo? No, perché oggi – facendo le dovute proporzioni – per chi si occupa d’arte accade qualcosa del genere. Tutti i media strillano a gran voce che il dipinto Nafea Faa Ipoipo di Paul Gauguin è stato venduto per 300 milioni di dollari, e che questo straccia il precedente record per l’opera più costosa della storia, che spetterebbe ai Giocatori di carte di Paul Cézanne. Pare che l’abbia acquistato – come del resto il Cézanne – a trattativa privata l’emiro del Qatar, e questo risponderebbe a tutti gli interrogativi sull’eccesso di queste vendite, e sull’aderenza ai trend di mercato di queste cifre.
Ma poi capita che un telegiornale dica che questa cifra sarebbe stata raggiunta in un’asta: e allora la cosa si fa più seria. Già, perché la cosa cambia come fra giorno e notte: come nota il puntualissimo portale ArtsLife, le trattative private – specie se tenutesi in Svizzera, come in questi casi – non sono soggette a rigidi controlli: e neanche a implacabili risvolti fiscali. Per cui dire 300 milioni, o 250, o magari presto 400 milioni di dollari, poca differenza fa: se non lo scatenare l’immancabile messe di acritici articoli di giornale, o servizi tv. In asta invece è tutto diverso: le case d’asta sono quotate in borsa, e sono continuamente sotto la lente d’ingrandimento del fisco e degli organismi di controllo, per cui in quel caso le cifre sono e devono essere reali.
Che significa questo? Significa che in Italia – siamo pronti a scommettere che un media inglese non commetterebbe mai un errore così marchiano – in tanti ambienti l’arte è ancora considerata alla stregua di un passatempo, della filatelia, della malacologia, del gioco del backgammon. Un giochetto di nicchia, “esotico”: per cui anche se si scrivono cazzate sesquipedale, chi vuoi che se ne accorga? O se ne risenta? Un’altra faccia dell’ostinazione di un’Italia che non vuole capire che arte e bellezza possono essere la sua unica via di salvezza da una crisi che la vede e la vedrà per molto ancora perdente…
– Massimo Mattioli
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