Italiani in trasferta. Lisa Batacchi a Bombay con Movin’Up: un mese in residenza esplorando arti applicate e tradizioni locali
Dentro un edificio storico nel cento di Bombay, là dove una volta c’erano uno studio di ricerca farmaceutica, poi un negozio d’antiquariato, poi ancora l’ufficio di spedizione della Shipping Company Thakur, sorge dal 2010 un posto chiamato Clark House Initiative. È la sede di un collettivo di artisti e curatori, impegnato in un percorso di […]
Dentro un edificio storico nel cento di Bombay, là dove una volta c’erano uno studio di ricerca farmaceutica, poi un negozio d’antiquariato, poi ancora l’ufficio di spedizione della Shipping Company Thakur, sorge dal 2010 un posto chiamato Clark House Initiative. È la sede di un collettivo di artisti e curatori, impegnato in un percorso di ricerca culturale, tra residenze, mostre, produzioni internazionali. Lisa Batacchi ha speso qui il suo mese di soggiorno legato al premio D.E.M.O Movin’Up, vinto per la seconda sessione del 2014. “Soulmates within time” è il titolo del progetto che le ha portato il podio. E che a Bombay ha trovato una forma espositiva compiuta.
Il tema: il lavoro come know-how identitario, tradizione culturale e sapienza manuale. Fuori dalle eterne fascinazioni dell’arte concettuale, Lisa prova a recuperare la seduzione di una pratica “sporca”, artigianale, in cui la produzione di oggetti e di pensieri sperimenti una coincidenza nuova, filtrata dal corpo e dalla tecnica. Il recupero di una dimensione sociale del lavoro stesso – tra corporativismo, collettivismo, cooperazione familiare, condizione femminile – riporta all’Italia degli anni ’60 e ’70 e all’exploit del made in Italy.
Da qui derivano i lavori presentati nel primo spazio, tutte creazioni a maglia, realizzate in collaborazione con i Banjaras Gormati, antica tribù nomade che per tradizione ha sempre lavorato con tessuti, ricami, maglieria, e che oggi vive di lavori occasionali nelle baraccopoli di Bombay. Nel secondo spazio trovano posto dei capi-scultura, ottenuti cucendo insieme delle tipiche t-shirt occidentali e delle strisce in tessuto colorato, ricamate ancora una volta dai Banjaras: l’incontro tra due civiltà e un’idea di abito come tessuto connettivo, trama ibrida, prolungamento del corpo e occasione di rimodulazione sociale.
“Su una parete adiacente ho usato gessetti colorati”, spiega l’artista, “per tracciare su un muro nero preesistente tutte le negoziazioni, che si sono verificate in questo mese di residenza, grazie alle quali sono riuscita a produrre il lavoro”. Aggiungendo: “Né io né i Banjaras amiamo il colore nero; loro pensano che certi ricami con quel colore possano portare sfortuna. Di sicuro un altro mese qui avrebbe completamente trasformato il muro nero in una parete astratta coloratissima!”.
Ai piani alti, infine, il rigore e l’estro di una pratica artistica che attinge dal mondo della manifattura e del design, trova una nuova estensione in un corpo installativo di dimensioni ambientali: un montaggio tridimensionale di specchi, micro sculture di perline, proiezioni video e strutture lignee.
– Helga Marsala
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