Obey su Barak Obama, otto anni dopo il celebre poster elettorale. Riflessioni di un artista deluso: dalla politica e dagli americani
LA GRANDE SPERANZA DEL 2008. ANCHE LA STREET ART NELL’AGONE POLITICO Con quel poster, divenuto iconico alla velocità della luce, Shepard Fairey, meglio noto come Obey, diventava una celebrità internazionale, sporcandosi le mani con la politica. La Street Art usciva dal ribellismo antisistema e prendeva posizione. Era il 2008 e il suo Barak Obama in […]
LA GRANDE SPERANZA DEL 2008. ANCHE LA STREET ART NELL’AGONE POLITICO
Con quel poster, divenuto iconico alla velocità della luce, Shepard Fairey, meglio noto come Obey, diventava una celebrità internazionale, sporcandosi le mani con la politica. La Street Art usciva dal ribellismo antisistema e prendeva posizione. Era il 2008 e il suo Barak Obama in quadricromia, accompagnato da chiari endorsement elettorali (“Hope”, “Vote”, “Change”, “Progress”…), si diffondeva in modalità virale. Operazione su cui il futuro Presidente non pose il suo ufficiale benestare, trattandosi di una campagna illegale, ma che apprezzò con tanto di ringraziamenti post-vittoria. Per quella stessa immagine Obey pagò con due anni di libertà vigilata, 300 ore di servizi sociali e 2.500 dollari di multa: così si concludeva un complicato processo intentato dalla Associated Press, tra le più grandi agenzie di stampa al mondo, che lo aveva accusato di violazione del diritto d’autore per l’uso di una foto del reporter Mannie Garcia.
Ma a otto anni di distanza da quella esaltante sfida, alla vigilia della scadenza del secondo mandato per Obama, Shepard Fairey che riflessioni fa? Come valuta questa lunga stagione democratica, col primo Presidente americano di colore al timone?
L’INTERVISTA: OBAMA? UNA VITTIMA DEL SISTEMA
Lo ha raccontato lui stesso, lo scorso 28 maggio, in una bella intervista su Esquire, super condivisa in rete e ripresa da testate come il Guardian o il Dailymail. Inevitabilmente più cauto, smaltita l’euforia di una partita dal sapore liberatorio, che arrivava dopo il regno repubblicano di Bush, Obey tira si le somme e – senza rinnegare la stima di ieri – lancia qualche frecciata all’illustre beniamino. Domanda secca: “Obama è stato all’altezza del tuo poster Hope?”. Risposta ancora più laconica: “Neanche lontanamente”. E giù con una lucida analisi: “Obama ha avuto un momento davvero difficile, ma ci sono stati un sacco di compromessi che non mi sarei aspettato. Voglio dire, i droni e lo spionaggio domestico sono le ultime cose che mettevo in conto. Ho incontrato Obama un paio di volte, e credo che sia una persona di qualità, ma credo anche che si ritrovi nella classica posizione in cui le tue azioni sono in gran parte dettate da fattori estranei al tuo controllo”.
ll problema, dunque, è nel sistema. Lo stesso che spinge Obey a criticare, con passione, i metodi di reclutamento dei fondi della politica, con le grandi lobby a farla da padrone: “Tutto ciò che riguarda il bene comune o le risorse comuni non interessa solo la parte superiore della piramide capitalistica, ma è influenzato dalla struttura del finanziamento delle campagne elettorali. La cosa per cui sono veramente preoccupato è il cambiamento climatico. Se guardi nel mio archivio c’è un sacco di roba sul potere delle industrie del petrolio e del gas […] Quasi tutto ciò che è connesso a gruppi industriali viene prima delle persone”. Lezione perfetta per i nemici del finanziamento pubblico ai partiti, abbagliati dal mito di una politica indipendente, che non gravi sulla collettività: come se non fosse proprio la collettività – piuttosto che gli interessi privati – ad aver in carico strutture e organi della democrazia. Partiti inclusi.
GLI AMERICANI? PIGRI, IGNORANTI, COMPIACENTI
Da qui, la fredda posizione nei confronti di Hillary Clinton, futuro pupillo dei democratici alla prossima corsa elettorale. Stavolta Obey ci va coi piedi di piombo: “Sono d’accordo con Hilary sulla maggior parte delle questioni, ma la struttura di finanziamento della campagna mi fa molto arrabbiare”. Parola di uno che, da ex sostenitore del movimento Occupy, si racconta come riformista, più che come rivoluzionario: ”Io non sono anti-capitalista. Il capitalismo ha solo bisogno di arbitri migliori”.
E anche, dulcis in fundo, di elettori migliori. Odio dire che gli americani sono ignoranti e pigri, ma molti di loro sono ignoranti e pigri […] Ciò che mi frustra infinitamente sono quelle persone che danno la colpa a Obama o che criticano e basta: sarebbe sufficiente fare alcune cose semplici, anche solo andare a votare, e le cose andrebbero un po’ meglio. Ci sono tante dita puntate e c’è poca azione e poca ricerca sulle dinamiche che hanno portato a questa situazione di infelicità”.
È così che un artista di strada, outsider per definizione, mette in guardia contro l’antipolitica d’estrazione populista. Il marcio è nel potere, ma anche e soprattutto nell’alveo sociale che lo produce. La democrazia come utopia imperfetta e necessaria. La politica come specchio di quello che siamo.
Helga Marsala
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