L’antico tempio di Baal Shamin a Palmira si sbriciola sotto i colpi della dinamite. L’Isis mette in atto la distruzione della cultura pre-islamica: e il mondo resta a guardare
Venti di odio, ignoranza e scelleratezza agitano ancora le sabbie del deserto siriano, tra le antiche colonne di Palmira. Se Khaled Asaad, il capo archeologo dell’antica città romana, non fosse stato decapitato dalle milizie dell’Isis la scorsa settimana, sarebbe morto di dolore nel vedere l’antico tempio di Baal Shamin sbriciolarsi sotto i colpi della dinamite. […]
Venti di odio, ignoranza e scelleratezza agitano ancora le sabbie del deserto siriano, tra le antiche colonne di Palmira. Se Khaled Asaad, il capo archeologo dell’antica città romana, non fosse stato decapitato dalle milizie dell’Isis la scorsa settimana, sarebbe morto di dolore nel vedere l’antico tempio di Baal Shamin sbriciolarsi sotto i colpi della dinamite.
Gli attivisti dalla regione sono stati tra i primi a riportare il destino, triste quanto prevedibile, del tempio con quattro colonne corinzie, svettanti sul fronte sino a sabato scorso. Anche se l’Osservatorio siriano per i diritti umani con base in Inghilterra sostiene che l’edificio sia stato distrutto un mese fa.
Dedicato ad una delle divinità più prominenti del pantheon dell’antica Siria, il tempio risalente al I secolo d.C. sorgeva a pochi passi dall’anfiteatro romano di Palmira, diventato palcoscenico di pubbliche esecuzioni capitali, da quando lo scorso maggio i soldati dell’autoproclamato Stato Islamico hanno innalzato la bandiera nera sull’antica oasi siriana.
Lo scorso venerdì, il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, aveva bollato l’operato dell’Isis come la più brutale e sistematica distruzione di siti antichi dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Ma ancora una volta, sono solo parole. E i capi di stato si limitano a guardare. Con sdegno, ma sempre di stare a guardare si tratta. Mentre un uomo di più di ottant’anni è stato lasciato da solo a proteggere, a costo della sua stessa vita, un patrimonio di cui dovrebbe sentirsi responsabile l’umanità tutta.
– Marta Pettinau
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