Il Bangladesh imita Roma. Anche al Dhaka Art Summit si censura un’opera per non offendere un potente: stavolta è l’ambasciatore cinese
La vicenda delle statue dei Musei Capitolini coperte per non offendere la suscettibilità del presidente iraniano Rouhani è dura da digerire: ma non è certo un caso isolato. Certo, dovrebbe far riflettere il fatto che ora Roma si trova a condividere l’atteggiamento pavido, per non dire vigliacco, con il Bangladesh. È qui che, nell’ambito del […]
La vicenda delle statue dei Musei Capitolini coperte per non offendere la suscettibilità del presidente iraniano Rouhani è dura da digerire: ma non è certo un caso isolato. Certo, dovrebbe far riflettere il fatto che ora Roma si trova a condividere l’atteggiamento pavido, per non dire vigliacco, con il Bangladesh. È qui che, nell’ambito del Dhaka Art Summit, importante mostra d’arte del sud est asiatico, è andato in scena un episodio di censura che per molti versi ricorda quello romano.
A farne le spese è stata Last Words, una serie fotografica di cinque lettere che commemorano i 149 tibetani auto-immolatisi per protestare contro l’oppressione cinese che va avanti dal 2009. Autori dell’installazione, la regista indiana Ritu Sarin e suo marito Tenzing Sonam, un tibetano in esilio. A protestare, chiedendo e ottenendo la censura dell’opera, l’ambasciatore cinese in Bangladesh, Ma Mingqiang: “Ci ha mandato una e-mail in segno di protesta e ci ha chiesto di rimuovere l’opera“, hanno dichiarato gli organizzatori della mostra.
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