MIA Photo Fair 2016 è finita. La top 5 delle cose viste alla fiera di fotografia a Milano
1. Paola Agosti. Come eravamo. Il movimento femminista 1974-1982 Nel Paese in cui 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza e il Consiglio d’Europa constata che l’accesso al servizio sanitario per l’interruzione volontaria di gravidanza non è affatto semplice, sorprende – e piacevolmente – che il Premio Tempo Ritrovato – Fotografie da non perdere […]
1. Paola Agosti. Come eravamo. Il movimento femminista 1974-1982
Nel Paese in cui 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza e il Consiglio d’Europa constata che l’accesso al servizio sanitario per l’interruzione volontaria di gravidanza non è affatto semplice, sorprende – e piacevolmente – che il Premio Tempo Ritrovato – Fotografie da non perdere vada quest’anno all’archivio fotografico di Paola Agosti (Torino, 1947), che negli anni Settanta – e fino al 1982 – ha documentato il movimento femminista e le rivendicazioni sociali avanzate dalle donne per le donne.
Un’indagine che, portata in mostra a MIA Fair, riallaccia il passato all’attualità – nella speranza, almeno da parte di chi scrive, di un nuovo slancio collettivo in tema di diritti e pari opportunità. Di più, è un esempio magnifico di una fotografia reportagistica che è anche narrazione sensibile e partecipe degli eventi: impossibile non percepire la scelta di campo della Agosti, che mette in scena microstorie di solidarietà e amicizia estemporanea al femminile, a dispetto della vulgata (misogina?) che fa della “femminista” una strega contemporanea, auspicandone la stessa sorte.
2. Officine dell’immagine
Ancora a riprova che una fiera può produrre un discorso culturale, la galleria attiva a Milano ha portato a The Mall una versione ridotta ma pregevole di un progetto espositivo fatto e finito. Una piccola mostra collettiva, che univa i quattro autori proposti – Gohar Dashti, Shadi Ghadirian, Servet Kocyigit, Jalal Sepehr – sia per la comune area geografica d’appartenenza, ovvero il Medio Oriente, sia soprattutto per i temi affrontati. Questioni sociali, quali la globalizzazione – e il dissidio con la tradizione culturale del posto, che si sente minacciata – e lo stesso ruolo della donna nella società (stavolta musulmana), vengono declinate diversamente da ogni fotografo esposto; a sottolineare che non esiste soltanto lo stile del fotogiornalismo, per avvicinare il grande pubblico a realtà più o meno estranee.
3. Galerie Voss
La serie di fotografie realizzate da Iwajla Klinke è apprezzabile ben oltre il livello tecnico e, quindi, estetico. L’autrice tedesca utilizza l’obiettivo per attualizzare quella sensibilità tutta nordica nei confronti del dettaglio e della sua resa cristallina. Eppure, il risultato esula dalla ritrattistica antropologica che tutto registra – e classifica: la ricchezza cromatica e luministica contrasta con il fondo nero; oscurità incipiente che sottrae informazioni alla vista, restituendo all’osservatore il concetto stesso del mistero rituale o liturgico. Per una fotografa che si riserva il diritto di intuire soltanto, invece di documentare.
4. Gallerie Maspes
Per essere la prima partecipazione a MIA Fair, gli espositori milanesi hanno trovato una chiave d’interpretazione della fotografia tutt’altro che marginale. Sviluppando il ruolo del mezzo come strumento d’indagine, hanno presentato a Milano delle radiografie d’arte. Realizzate dal belga Thierry Radelet, restauratore specializzatosi – proprio in Italia – nell’analisi multispettrale delle opere policrome, le grandi stampe sono altrettante “anime svelate” di sculture antiche e moderne, generalmente ben riconoscibili. Un progetto che, in maniera originale, ricorda implicitamente quanto anche un’immagine fotografica sia sempre una visione parziale di un tutto altrimenti inconoscibile, per quanto approfondita sia l’indagine condotta.
5. Galleria Pack
Per l’occasione, i lavori di Robert Gligorov si proiettano nello spazio. Letteralmente, dal momento che alcuni elementi dell’opera non sono rappresentazioni fotografiche dell’oggetto, ma oggetto stesso. Con un’ironia liberatoria – nella scelta di alcuni soggetti e soprattutto nell’interpretazione del tema – il macedone gioca con il principio di realtà già discusso in ambito concettuale. A riprova che, soprattutto in tempi recenti, l’influenza della rappresentazione non ha mai smesso di influenzare lo status dello stesso oggetto esperito.
– Caterina Porcellini
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