Una figura eccentrica, ironica, irriverente, che nell’Italia dell’Arte Povera si è mosso controcorrente, distinguendosi per il rigore di una ricerca di grande originalità. Si è spento nella notte tra sabato 24 e domenica 25 settembre Plinio Martelli, torinese classe 1945, artista curioso per definizione: attento a una molteplicità di linguaggi che spaziano dalla scultura al disegno, dalla fotografia al cinema sperimentale, arrivando – a fine Anni Settanta, con anticipo clamoroso sui tempi – a interessarsi a una cultura del tatuaggio che intuì tutt’altro che superficiale, e alla quale dedicò anche il suo impegno di saggista.
DA FLUXUS ALLA BIENNALE
Studi scientifici e poi l’Accademia Albertina per Martelli, figlio d’arte (il padre, originario di Milano, era pittore) che nell’aprile del 1967 partecipa con Ben Vautier, Alighiero Boetti, Ugo Nespolo, Arrigo Lora Totino (anch’egli recentemente scomparso) e molti altri al grande evento Fluxus che si tiene tra la Galleria “Il Punto” e la Sala delle Colonne del Teatro Stabile, entrando così giovanissimo in contatto con la scena della sua città, dove debutterà con la sua prima personale – due anni più tardi – negli spazi di Christian Stein, con cui avvia un sodalizio che sarebbe durato anni. A questa collaborazione si affianca in parallelo quella con un altro grande gallerista torinese: Franz Paludetto, che lo espone la prima volta nella sua LP 220 nel 1971, e con cui collaborerà in modo continuativo nel corso degli anni.
Tra i momenti di massimo riconoscimento per l’artista la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1978, alla quel venne invitato in virtù del suo lavoro nel cinema sperimentale, ambito che aveva cominciato a frequentare dalla fine degli Anni Sessanta, muovendo dal modello rappresentato dalla scuola del New American Cinema.
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