Il sassolino nella scarpa. Oliviero Toscani (per fortuna) non è Raffaello. Neanche agli Uffizi
Il grande fotografo dona al museo il suo Autoritratto. Al di fuori di ogni contesto, senza un quadro programmatico che inserisca la cosa in un progetto strutturato, che la vesta di un’idea, di una prospettiva
Nessuno riuscirebbe a negare del genio nell’opera di Oliviero Toscani, da decenni fra i maggiori innovatori della visualità nel nostro Paese, un personaggio che ha riscritto dalle fondamenta il significato della comunicazione, in particolare di quella commerciale. Che ha fatto diventare le pubblicità – serve citare le campagne Benetton? – delle opere d’arte. E per le stesse ragioni nessuno, probabilmente, troverebbe da ridire sul fatto che una sua opera entri a far parte delle collezioni e venga esposta in un museo, anche in un grande museo. Qualche distinguo – senza moralismi – sorge quando si scopre di quale museo si tratta: e non tanto perché si tratta di uno dei più importanti musei al mondo per l’arte antica, specie rinascimentale. Ma perché questa apertura alla contemporaneità, di per sé tutt’altro che censurabile, avviene al di fuori di ogni contesto, senza un quadro programmatico che la inserisca in un progetto strutturato, che la vesta di un’idea, di una prospettiva.
UNA TROVATA COMUNICATIVA PIÙ CHE UN FATTO CULTURALE?
Stiamo parlando delle Gallerie degli Uffizi, che hanno appena presentato la donazione dell’Autoritratto di Oliviero Toscani, che sarà esposto fino alla fine di settembre nell’appena restaurata Sala del camino al Piano Nobile del complesso vasariano. Un evento accompagnato – e questo un po’ stride – da una robusta campagna stampa, con comunicati che celebrano l’arricchimento della “collezione degli Autoritratti della Galleria degli Uffizi”, con ciò rimarcando l’inserimento dell’acquisizione in una raccolta che allinea autori come Raffaello, Annibale Carracci, Canova, Hayez. E un direttore – Eike Schmidt – che dichiara trionfante che l’Autoritratto “si inserisce nella tradizione dell’autoritratto con la smorfia, un tipo di cui agli Uffizi eravamo carenti”. Ribadiamo: non siamo contrari ad aperture che anzi abbiamo più volte lodato proprio in Schmidt, fra i più brillanti e riformatori dei direttori usciti dalla megaselezione franceschiniana. Ma farsi prendere la mano con un evento che – come motivavamo – avulso da un progetto strutturato appare più vicino a una trovata comunicativa che a un fatto culturale, rischia di indebolire tutto il sistema su cui si è basato l’arrivo dei nuovi direttori. Ci sono mille modi – e Schmidt ha dimostrato di maneggiarli bene – per svecchiare gli Uffizi e renderli un museo contemporaneo, senza scivolare nella macchietta…
– Massimo Mattioli
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