Il primo film della sezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma non è In guerra per Amore di Pif, come diversi quotidiani hanno erroneamente riportato. Ma Moonlight, di Berry Jenkins. Quando le luci si abbassano, la voce femminile dell’altoparlante – quella che di solito raccomanda di spegnere il cellulare – chiede al pubblico di attendere che a fine proiezione sia il Presidente della Repubblica a uscire per primo dalla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. Una serata assolutamente mondana che fa da pendant con la scelta alternativa (?) a cui anche gli opening di arte contemporanea ci hanno abituati: bella gente a presenziare storie tragiche messe in vetrina. E a questo mix non sfugge il taglio dato da Antonio Monda, che decide di aprire la Festa con un film che sulla carta è il contrario di ciò che ci si aspetterebbe dal primo red carpet di una manifestazione di questo livello: niente star o mainstream, un film indipendente insomma. E infatti tra i produttori c’è Brad Pitt, in rappresentanza di quella Hollywood progressista che finanzia opere di denuncia.
IL CONFORMISMO DELL’ANTICONFORMISMO
Ma che comunque è Hollywood, oggi. E il film è esattamente questo, una storia di emarginazione, bullismo e omosessualità, con protagonisti di colore: 150 minuti di disgrazie ben confezionati; un approccio estetizzante che però mal si accosta ai dialoghi asciutti e al tema trattato. Un racconto in tre atti, infanzia, adolescenza e maturità di Chiron, un diverso in tutto: orientamento sessuale, estrazione sociale, colore della pelle. Vicenda che Jenkins addomestica visivamente, facendo il verso a Richard Linklater (il regista di Boyhood), piuttosto che trattare con un approccio diretto e naturale. Il risultato appare debole, artificioso e poco convincente. Come tutto ciò che è studiato per uscire dagli schemi ma vi rientra pienamente, in difetto di sincerità.
– Mariagrazia Pontorno
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