Brain Drain. Parola a Enrica Camporesi
Da Forlì all’Egitto. Enrica Camporesi è approdata a Il Cairo per ragioni sentimentali, ma lì ha trovato una realtà culturale vivace con cui confrontarsi. Oggi si occupa della comunicazione del Downtown Contemporary Arts Festival. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza.
Perché Il Cairo?
Dopo un anno a Beirut, dedicato studiare la scena teatrale contemporanea libanese e le sue connessioni con la storiografia del dopoguerra civile, mi sono laureata in lingua e letteratura araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ma avevo le idee molto confuse circa la strada professionale che volevo intraprendere. Ho cominciato a inviare application per posizioni legate alla Commissione Europea. Volevo una realtà istituzionale che mi permettesse di fare un’esperienza strutturata. Poi, visto che il mio ragazzo ha vinto una borsa di studio per Il Cairo, punto di riferimento culturale e politico imprescindibile per capire qualcosa sulla storia del Medio Oriente, ho deciso di seguirlo e partire per un anno per approfondire la lingua araba. Speravo di cogliere l’occasione per approfondire produzioni culturali e artisti egiziani contemporanei, in un clima politico di eccezionale vitalità.
Come sei entrata in contatto con l’organizzazione del Downtown Contemporary Arts Festival?
Cercavo lavoro, mentre frequentavo un corso di arabo. Ho iniziato a seguire alcuni corsi di stage management organizzati dallo Studio Emad Eddin Foundation. Era un modo per accedere al contesto locale. In Italia ho collaborato alla produzione di spettacoli di strada e festival teatrali locali in scala ridotta, maturando qualche esperienza, come ad esempio quella con il Rof, Festival itinerante di arte musica e danza di Forlì. Dopo qualche tempo, con faccia tosta, mi sono proposta a Ahmed ElAttar, direttore artistico di Downtown Contemporary Arts Festival, per farmi conoscere e per collaborare alla comunicazione e alle pubbliche relazioni del festival. Poi è arrivato un primo contratto. La differenza dall’Italia è che ho trovato rapidamente delle opportunità professionali in ambito artistico-culturale che mi permettono di lavorare a stretto contatto con alcuni dei protagonisti della scena musicale e teatrale indipendente del Cairo, oltre alle relazioni privilegiate che ho sviluppato con la stampa locale grazie al Festival.
Sono tutti egiziani?
In ufficio sono prevalentemente egiziani, ma lo staff è internazionale, con colleghi colombiani, brasiliani, irlandesi, indiani. Come per tutti gli enti che si occupano di cultura, anche noi lavoriamo soprattutto con partner stranieri. Qui infatti ci si divide fra le istituzioni che dipendono dagli esigui stanziamenti del Ministero, e gli indipendenti, che cercano finanziamenti stranieri tramite ambasciate e istituti di cultura. Noi [lo Studio Emad Eddin, promotore del festival D-CAF, n.d.r.], siamo co-finanziati da un ente svedese e da una compagnia immobiliare egiziana, limitatamente al festival.
Di cosa si occupa Festival?
Con circa 130 artisti locali e internazionali, D-CAF è il più grande festival multidisciplinare dedicato alle arti contemporanee in Egitto. Il Festival è nato per avvicinare il pubblico cairota al meglio delle produzioni culturali internazionali, sperando di contribuire a riportare l’Egitto sulla scena culturale globale. Il Festival intende facilitare la collaborazione e l’incontro tra artisti diversi ma aperti alle influenze e suggestioni del centro storico del Cairo, teatro negli ultimi due anni di violenze inaudite, ma storicamente culla delle arti e della riflessione intellettuale egiziana e araba.
La programmazione di D-CAF è curata dal Direttore Artistico Ahmed el-Attar, quest’anno in collaborazione con Mahmoud Refaat, musicista e fondatore dello studio di registrazione 100copies, e MEDRAR, collettivo di artisti visivi.
Non ci sono ideologie politiche dichiarate, ma è certo che gli ultimi sconvolgimenti politici hanno aperto le porte a una più intensa e incontrollata circolazione di idee e energie creative. È un cambiamento radicale per la città, e gli operatori locali si sono dati molto da fare: il rinnovato bisogno di libertà di espressione di fronte alla dittatura e ai governi post-rivoluzionari, ha accomunato tante azioni, anche in modo strumentale.
I Fondi della Comunità Europea per il buon vicinato, ad esempio, hanno da un lato innescato virtuose collaborazioni fra i paesi mediterranei investendo anche sulla scena artistica locale, dall’altro hanno sicuramente orientato massivamente la ricerca e le produzioni culturali recenti, insistendo principalmente su pochi temi chiave come donne, giovani e nuove tecnologie.
Com’è il contesto culturale locale?
Negli Ottanta e Novanta è stata scelta la politica della gratuità per incentivare il pubblico a fruire cultura con il motto: “Cultura per tutti”. Per questo, chi pratica una politica di ticketing si trova spesso boicottato dal pubblico. In città succedono tante cose, soprattutto in ambito musicale, ma nulla a confronto delle capitali europee. Nonostante ciò, dagli anni 2000, la scena indipendente è ricchissima. La scena musicale abbraccia tutta la mezzaluna araba, con scambi costanti dal Libano al Marocco. La scena teatrale e della danza contemporanea annovera compagnie storiche e fioriture di collettivi. Ci sono generi più tradizionali ma anche spazio alla sperimentazione. La danza contemporanea è ben rappresentata tra gli altri dalla coreografa Karima Mansour (direttrice della scuola di danza Cairo Contemporary Dance Center) e dal danzatore e organizzatore Adham Hafez.
Se gli spazi “tradizionali” dell’arte indipendente (come Townhouse gallery, RawabetTheatre, ElWarsha troup), sono divenuti essi stessi istituzioni, la galleria Beirut, di Jens Maier-Rothe e Sarah Rifky, o il collettivo Finding Projects, guidato da Aida El Torie, cercano di articolare una riflessione rinnovata sulla curatela e la relazione con gli artisti e il pubblico.
A livello istituzionale, del risibile budget che il Ministero della Cultura ha destinato alle arti per l’intero anno (80.000 pound, cioè 10.000 euro), hanno usufruito soltanto il Teatro dell’Opera e il Festival del Cinema.
Frequenti gli italiani?
Sono qui da circa un anno ma a parte pochi amici connazionali, faccio di tutto per evitare i circoli italiani, perché voglio penetrare il tessuto locale e approfondire il mio arabo. Ho tentato una collaborazione con l’Istituto di Cultura, proponendo un lavoro di ricerca per mappare la scena teatrale locale ma senza successo, mi hanno detto che ero troppo giovane! Altri istituti culturali sono più dinamici, come l’Institut Francais, il British Council o il Goethe Institut che organizza tra l’altro l’Arab short film festival.
Neve Mazzoleni
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