Hotel di lusso e riqualificazione culturale
Troppo spesso, in Italia, quando si parla di “riqualificazione culturale” si indicano processi piuttosto lontani da questo concetto. Basti pensare ai tanti immobili valorizzati, sì, ma anche trasformati in luoghi per il turismo di lusso. Come fare, allora, per dare vita a riqualificazioni davvero culturali, coinvolgendo soggetti pubblici, privati e la collettività?
È ora di fare chiarezza. Da sempre in Italia ci sono valide realtà imprenditoriali attive nel settore immobiliare che riescono a trasformare edifici caduti in disuso oppure non pienamente valorizzati in immobili estremamente attrattivi ed eleganti, soprattutto rivolti a un comparto luxury e spesso trasformati in strutture ricettive di alto prestigio. Sebbene questa attività abbia innegabilmente dei risvolti positivi per il turismo, operazioni di questo genere non rappresentano attività di riqualificazione culturale. Perché ci sia una riqualificazione di questo tipo è necessario costruire, progettare e realizzare interventi che non siano soltanto real-estate oriented.
Facciamo un esempio: prendiamo un immobile di pregio architettonico, situato in una posizione potenzialmente strategica per i flussi turistici di una grande città ma che, per i più svariati motivi, non rappresenta una priorità per la proprietà (che può essere pubblica o privata).
Allo stato attuale, il modus operandi ricorrente nel nostro Paese prevede che venga effettuata una di queste due operazioni:
– riqualificazione (pseudo) culturale
– riqualificazione immobiliare.
La prima è quella tipica degli spazi dati in concessione ad associazioni, enti non profit, ecc. e spazia dalla realizzazione di “centri polifunzionali” alla creazione di sedicenti “hub” con incubatori, stampanti 3D, coworking, ecc.
La seconda è un’operazione più netta e definita: che sia una delle Società di Gestione del Risparmio di Cassa Depositi e Prestiti o che sia una società privata (anche se la differenza è poca, a dire il vero), un soggetto acquista l’immobile, lo riqualifica e lo rivende. Punto.
A ben vedere, né l’una né l’altra rappresentano dei casi di rigenerazione urbana culturale. La prima è il retaggio di un “mito” che trasforma gli spazi inutilizzati in tante “cantine ufficializzate” che dovrebbero ospitare un nuovo “Steve Jobs” o “Bill Gates” e ricreare una Silicon Valley in miniatura, che nella maggior parte dei casi finisce semplicemente a produrre un po’ di autoimpiego, qualche connessione di network e basta.
L’altra è un’operazione immobiliare in senso stretto, che restituisce alla città un immobile valorizzato, che può essere attrattivo per il turismo di lusso, ma che non si distanzia molto (sul piano concettuale) dalle operazioni immobiliari che per anni hanno contraddistinto il nostro Paese sulle coste più amate dai turisti stranieri (si pensi ai villaggi sorti come funghi in Calabria, ecc.) o da quelle che hanno reso Venezia una sorta di parco a tema per i vari russi, cinesi, giapponesi.
UNA QUESTIONE DI COSTI
La riqualificazione urbana richiede che ci siano ben altri processi, ma tutto ciò non accade per motivi molto banali: questi passaggi “costano”. Costano in termini di risorse economiche, in termini di tempo (che in operazioni immobiliari sono molto legati agli aspetti economici), e in termini di risorse umane e relazioni politiche.
È sicuramente un costo, ad esempio, il tentativo di coinvolgere attivamente la cittadinanza, che espone l’imprenditore (sia pubblico che privato) a un duplice fattore di rischio: tempo e dissenso programmatico (dove con dissenso programmatico ci si riferisce ad atteggiamenti faziosi, frequenti nel nostro Paese, che ricorrono a un approccio negativo nei confronti di ciascun cambiamento, con fini che sono tutt’altro che legati all’interesse collettivo).
Così come è un costo il tentativo di realizzare un progetto di lungo periodo che “partendo” dall’immobile riesca a coinvolgere anche le infrastrutture legate al quartiere (strade, illuminazione, mobilità, ecc.) per il quale è necessario ci sia un “patto” tra le differenti forze politiche che si impegnano a portare avanti il progetto così come approvato anche a seguito di cambio di giunta.
“La riqualificazione urbana richiede che ci siano ben altri processi, ma tutto ciò non accade per motivi molto banali: questi passaggi “costano”. Costano in termini di risorse economiche, in termini di tempo (che in operazioni immobiliari sono molto legati agli aspetti economici), e in termini di risorse umane e relazioni politiche”.
Sono ancora costi quelli rappresentati dal ricorso a professionisti esterni, che curino gli aspetti strategici della riqualificazione così come la parte di visual, la promozione turistica, la creazione di iniziative per i cittadini, le campagne social e ancora i rapporti con le soprintendenze, con gli uffici comunali, con tutti i ritardi e i rallentamenti che la macchina burocratica comporta.
QUALCHE SUGGERIMENTO
Come uscire da questa impasse, che sta tentando di riempire i vuoti senza renderli veramente “pieni”?
Basta ripensare i processi e il ruolo del settore “pubblico” a seconda delle contingenze: nel caso l’immobile in possesso sia appartenente alla pubblica amministrazione, l’assegnazione dovrebbe avvenire sulla base di “analisi di mercato” ben realizzate, premiando “iniziative innovative rispetto al contesto” e legare l’assegnazione a indicatori definiti (o anche proxy) tra le varie proposte. Modificare quindi le “forme” dei bandi, adattandoli alle reali esigenze del contesto (e non copiando, come spesso accade, quelli realizzati in altri comuni). L’assegnazione, inoltre, dovrebbe essere il punto di partenza e non di arrivo del processo: con l’assegnazione l’affidatario si impegna a mantenere un elevato livello qualitativo dell’offerta, mentre l’amministrazione si impegna a realizzare interventi “strutturali” in grado di rendere l’immobile “cool”.
Caso contrario, invece, per quelle operazioni immobiliari prettamente private: in questo caso si potrebbe immaginare l’istituzione di una speciale “agenzia” che si occupi di massimizzare le “esternalità positive” delle operazioni di questo tipo.
In che modo? L’agenzia pubblica una mappa della città in cui potenzialmente può avere interesse a investire; riceve tutte le operazioni immobiliari in corso e decide (sempre sulla base di criteri oggettivi) di intervenire come “investitore esterno” per alcuni di essi: il suo ruolo non sarebbe quello di entrare come capitale di rischio o come assistenza nell’acquisto dell’immobile, quanto piuttosto quello di “coprire” eventuali costi derivanti dal processo aggregativo, quelli legati alla creazione di contenuti culturali all’interno dell’immobile, quello di migliorare la mobilità del quartiere o l’illuminazione, ecc. ecc.
In questo modo gli imprenditori avranno sempre maggiore interesse a investire in quelle strutture che presentano elementi culturali o in operazioni culturali (conviene in termini di ritorno economico), il pubblico avrebbe un veicolo per indirizzare al meglio le proprie iniziative di riqualificazione infrastrutturale e la collettività potrebbe trarne sicuramente un maggior vantaggio.
In questo modo, si potrebbe assistere (usando un termine che piace tantissimo agli italiani) a un percorso di rigenerazione “diffusa”. Ma forse è chiedere troppo.
– Stefano Monti
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