Guide d’artista. La Puglia di Fabrizio Bellomo
Cresce la collana edita da Centro Di, curata da Alberto Salvadori e Giacomo Zaganelli. Uscito a fine giugno, il secondo libro compreso in questo percorso di esplorazione e conoscenza del territorio nazionale si concentra sull’indagine che Fabrizio Bellomo sta conducendo sul paesaggio pugliese.
Nel 2018 il Villaggio Cavatrulli è stato selezionato da Mario Cucinella per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2018. Quest’anno è stato scelto per rappresentare la Puglia nel secondo volume della collana curata da Giacomo Zaganelli e Alberto Salvadori per CentroDi. Cosa intendi raccontare della tua terra d’origine ‒ e della sua architettura ‒ con questo lavoro?
Come premesso nel mio testo di introduzione, intendo – in primo luogo – raccontare della fatica dei cavamonti, dei cavatori che, armati per centinaia e migliaia di anni del solo piccone, hanno modellato la regione come fosse un’unica e grande scultura. Come fossero parte di quel “popolo di formiche” narrato da Tommaso Fiore. Sono felice di averli raccontati attraverso i lasciti scultorei presenti sul territorio pugliese, dove sono ancora ben visibili tutti i segni delle loro picconate. Altri aspetti più meramente architettonici del progetto riguardano, invece, il solito Uovo di Colombo, ovvero potenzialità che tutti conoscono ma nessuno prova a realizzare. Parlo della possibile progettazione del territorio cavato: così come si faceva per gli ipogei o come si è fatto – restituendoci l’incredibile scultura che è – a Matera.
Nella premessa del volume, Zaganelli fa proprio riferimento al contributo inconsapevole delle migliaia di lavoratori delle cave della tua regione, che permette di “identificare la Puglia come un unico grande bassorilievo a cielo aperto“. Le esperienze, anche informali, di “riappropriazione/attivazione” di questi luoghi ‒ penso, ad esempio, al brano Appunti del 15 agosto ‒ restituiscono immagini ambivalenti e contrastanti degli stessi. Dalla tua attività di esplorazione di queste zone, come definiresti la loro relazione con la comunità locale? Come vengono percepite?
Va precisato che Zaganelli riprende una mia metafora ricorrente in cui, come suddetto, visualizzo – in modo più consono – la Puglia come un’unica e grande scultura. Le “architetture di risulta” di cui mi sono occupato, spesso non vengono affatto percepite, codificate o decodificate, ma più semplicemente vissute. Non vi è alcuna consapevolezza – non di rado neppure fra le stesse comunità locali – del perché siano presenti determinate forme antropizzate su talune scogliere, ma vengono più che frequentemente scelte proprio tali forme per abitare questi luoghi: perché più comode, più adatte all’uomo, più antropizzate appunto. Ma sul perché tali luoghi possiedano determinate forme, questo sembrerebbe non interessare ai più. Il tutto è vissuto, però, con modalità estremamente naturali, soprattutto per quel che riguarda le ex zone estrattive sul mare. Per quanto concerne invece le zone estrattive interne, vi è più consapevolezza, spesso data soprattutto dalle grandi dimensioni delle stesse. Le cave sul mare, invece, dai segni che ci sono rimasti: dovevano frequentemente essere di dimensioni ridotte, come si direbbe: a misura d’uomo.
Ripensando al primo volume della collana, individuo nel tuo lavoro e in quello di Zaganelli una sorta di “analogia sentimentale” rispetto ai vostri territori d’origine. Oltre a una certa affinità (almeno iniziale) nell’uso dello strumento fotografico, il vostro comune desiderio di dedicarvi a forme di analisi anche in forma solitaria sembra rivelare il valore del tempo sulle tracce lasciate nel territorio dell’uomo. Sei d’accordo?
Sinceramente non vedo affinità nell’utilizzo dello strumento fotografico; sicuramente, invece, sento un’affinità di intenti nell’esplorazione in forma solitaria: è questo sicuramente un aspetto che ci accomuna. Penso che la bella frase “il valore del tempo sulle tracce lasciate nel territorio dell’uomo” sia più consona al lavoro di Giacomo che al mio. Per il quale vale di più l’inverso, ovvero credo che qui sia più forte il valore delle tracce lasciate dall’uomo sul tempo, trattandosi di una vasta modellatura della pietra calcarea.
Cosa ti ha spinto, a un certo punto del tuo percorso, a misurarti con luoghi che conosci da anni?
Nulla mi ha spinto a occuparmi delle cave, più semplicemente le vivevo, le vivo, tanto, ogni estate. Soprattutto per quel che riguarda le ex zone estrattive sul mare – molte di queste sono fra i luoghi dove prediligo passare le mie giornate da bagnante. Esattamente ieri ho passato tutta la giornata al mare, nella cava di Egnazia, adiacente al noto muraglione, intento a pescare “le pelose”, i grandi granchi favolli di cui quel luogo è colmo. Cucinati poco dopo in un’ottima spaghettata per gli amici fiorentini. Come ti dicevo, io stesso, passo – da sempre – diverse giornate estive nelle ex zone estrattive sul mare, sin da piccolo, quando giocavo in un’antica peschiera romana. Spesso mi tocca ripetere questa frase alle mie amiche mamme, quando mi mostrano orgogliose dei “disegni astratti” dei loro figli: “… Il difficile non è fare cose da bambini quando si è bambini, ma è continuare a farle da grandi, per parafrasare con parole più note e più belle”. Direbbe Battiato: “Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti…”. Come scrivo a inizio volume, da piccolo passavo molto tempo in alcune architetture concave sul mare a cercare gli stessi granchi che continuo a pescare oggi, come continuo anche a vivere e a osservare questi ambienti per cui sento qualcosa di molto profondo – sento che fanno parte di me, che sono pietre parte delle mie ossa, o più verosimilmente: che le mie ossa diventeranno parte di queste pietre – come già successo ai nostri avi. “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi…”. Beh io, invece, vengo più probabilmente da questi scogli concavi modellati dalla fatica dei “contadini di pietra”. O – di nuovo – più verosimilmente ‒, mi piace illudermi di ciò. Insomma per sintetizzare il tutto in una possibile risposta alla tua domanda: era per me inevitabile affrontare tale tematica. Non è stata una scelta. È stata la tematica ad affrontare me e non viceversa.
Nel libro hai scelto di includere anche l’opera di Ugo La Pietra relativa a questo progetto. Quali eventuali elementi di riflessione ha introdotto nella tua ricerca il confronto con lui su questo tema?
Credo di aver inserito l’opera di Ugo (che in realtà è un lavoro a quattro mani co-firmato) per farmi fare questa domanda nelle interviste. (Scherzo!) Ugo è da sempre legato alla pietra leccese e alla Puglia; lui e Vaccari sono legati alla mia regione da tempi non sospetti. Ha lavorato in alcuni degli stessi luoghi che anche io ho attraversato per il progetto Villaggio Cavatrulli, in particolare ci accomuna la simpatia reciproca sviluppatasi con la sfaccettata comunità di Cursi, nel Salento. Entrambi abbiamo realizzato dei progetti lì. Ugo ci ha realizzato delle meravigliose installazioni pubbliche in pietra. Oramai divenute parte integrante del borgo storico, perché realizzate con la stessa pietra; vi sono le stesse muffe presenti nelle pietre dei palazzi storici del borgo. Per Villaggio Cavatrulli, quindi, grazie all’amica comune Rossana Ciocca, ho chiesto a Ugo di disegnare il villaggio composto dagli scarti architettonici archiviati da me fotograficamente; gli ho chiesto di farlo seguendo delle mie indicazioni precise (“mettiamo questo qui, questo lì, le scalette così, il trullo e il muretto a secco in questo modo, ecc…”). Questo, che potrebbe sembrare un atto di sfacciataggine, è stato possibile grazie a un forte livello di empatia che si è subito palesato fra di noi. Credo. Tornando alla domanda, i miei collage del Villaggio Cavatrulli, per esempio, sono nati dopo i disegni richiesti (con indicazioni molto dettagliate) a Ugo: quindi credo che la sua visione da incredibile disegnatore ‒ il migliore tratto italiano, a mio parere ‒ abbia stimolato in me ulteriori visioni architettoniche. Anzi, sicuramente.
Cosa puoi anticiparci in merito ai tuoi prossimi progetti? E come proseguirà l’esperienza di Villaggio Cavatrulli?
Ho da pochissimo realizzato un’installazione pubblica a Bari, di cui sono molto contento. È intitolata 11 Messaggi Speciali, un omaggio alla storia poco conosciuta – ma di estrema rilevanza storica ‒ di Radio Bari, scoperta grazie agli approfondimenti radio di Alessandro Leogrande. Da poco ha chiuso una collettiva alla Fundació Enric Miralles a Barcellona dove, con la curatela di Ilaria Speri e Massimo Torrigiani, abbiamo realizzato una bella installazione relativa proprio al progetto Villaggio Cavatrulli.
A settembre con la mia galleria di Modena, Metronom, con Marcella Manni, andremo ad Amsterdam per Unseen; porteremo lì la serie dei ritratti numerici. A novembre, abbiamo in programma una ulteriore piccola esposizione del progetto Villaggio Cavatrulli, a Milano, presso lo spazio Office Project Room del collezionista Francesco Macchi, dove sono stato invitato da Matteo Cremonesi che ne cura, insieme a Giangiacomo Cirla, il programma. Poi c’è qualcosa in ballo a Parigi nel 2020, ma su questo non posso dire molto di più. Più nell’immediato, ho la prima sessione di esami con i miei bravissimi studenti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce. Infine permettimi di ringraziare Ginevra Marchi e tutto lo staff del Centro Di (Giulia, Matteo, Chiara, Silvia, Paolo) di Firenze, per avere avuto la forza e la follia di credere in questa bella operazione delle guide d’artista, portata avanti insieme a Zaganelli e Salvadori.
‒ Valentina Silvestrini
Fabrizio Bellomo, XXI. Guide d’artista. 2. Villaggio Cavatrulli
CentroDi, Firenze 2019
Pagg. 44+52, € 35
ISBN 9788870385557
www.centrodi.it
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