Oslo. Piccola capitale, grandi contenuti
Grande eccitazione nella capitale norvegese: fervono i preparativi per due nuovi musei, a completare un’area che vede già la magnifica Opera House di Snøhetta e l’Astrup Museet di Renzo Piano. E ha pure inaugurato una Biennale che dura cinque anni, mentre a settembre inizia la Triennale di Architettura. Insomma, è tempo di andare a visitare Oslo.
Clima fresco e instabile, specie nelle zone limitrofe ai fiordi. Costo della vita memorabile – nel senso che non ve lo scorderete. Una città tutto sommato piccola, ben servita da mezzi pubblici e in condivisione, facilmente attraversabile e fruibile (trovare qualcuno che non parli inglese è un’impresa disperata), con un servizio di traghetti ineccepibile se desiderate spostarvi di qualche miglio verso altri fiordi o isole. Questa è Oslo in estrema sintesi.
LANDMARK SNØHETTA
Il landmark cittadino è senza dubbio la Norwegian National Opera and Ballet progettata da Snøhetta, studio d’architettura fondato alla fine degli Anni Novanta da Craig Dykers e Kjetil Trædal Thorsen. Inaugurato nel 2008, l’edificio è una scultura sociale: la sua forte connotazione estetica è infatti coniugata con una altrettanto spiccata vocazione pubblica, grazie alle ampie aree praticabili, sia all’esterno (fino al tetto) che all’interno (hall, bookshop, ristorante e bar sono fruibili anche da chi non assiste agli spettacoli e gli orari di apertura sono generosi). Coerente la scelta dei materiali: dalle lastre in marmo all’esterno, con pendenze che variano continuamente (funzionali per favorire il deflusso dell’acqua al suo stato liquido e solido, ma il cui afflato artistico è garantito dal design di Kristian Blystad, Kalle Grude e Jorunn Sannes), alle ampie vetrate, fino ai rivestimenti interni, con il calore tipico del legno che si alterna al rivestimento optical concepito da Olafur Eliasson per l’area dei servizi.
Qualora vi chiediate se quella strana micro-isola in acciaio e vetro, collocata a breve distanza dalla riva, faccia parte dell’Opera, la risposta è no: è la scultura She Lies (2007) di Monica Bonvicini, liberamente ispirata a Das Eismeer di Caspar David Friedrich.
LE ARCHITETTURE RECENTI
La Lonely Planet l’avrà pure inserita fra le Best Destination nel 2018, ma Oslo in fondo è una cittadina che si visita in un paio di giorni. Però è un ottimo punto di partenza per andare a Moss per la decima edizione di Momentum, per fare tappa a Bergen, oppure per spingersi all’estremo nord lungo una direttrice ideale che passa per Trondheim e giunge a Tromsø.
Questo non significa che l’offerta della capitale sia terminata qui. In ambito architettonico gli edifici da osservare sono parecchi. A partire dal progetto Bjǿrvika Barcode (2005-16) coordinato dagli olandesi MVRDV, che potete apprezzare a mezza quota percorrendo il ponte pedonale Akrobaten sopra la stazione ferroviaria, per poi scendere al piano stradale e gironzolare fra le dodici torri che lo costituiscono, andando a formare, appunto, un codice a barre.
Tutt’altro approccio, più simile a quello adottato da Snøhetta, è quello che contraddistingue l’Astrup Fearnley Museet, con l’edificio affacciato sul mare realizzato nel 2012 da Renzo Piano. Siamo nella zona di Tjuvholmen, area a vocazione residenziale di lusso con un quoziente di qualità architettonica sorprendente; la nuova sede del museo privato nato nel 1993 si adagia sui due lati del canale, per poi espandersi con un piccolo parco di sculture (i nomi sono grandi, le opere di per sé molto meno) fino alla riva del mare.
Molto sponsorizzata l’area di Vulkan, nel mezzo della più classica gentrification: il risultato è però deludente, con un’area commerciale dotata di food hall priva di qualsivoglia identità; molto meglio le porzioni che – almeno per ora – mantengono le strutture ex industriali e gli storici graffiti, lungo un percorso pedonale e ciclabile che, seguendo il corso dell’Akerselva, vi riporterà alla stazione centrale.
I CANTIERI…
Fra l’Opera e l’Astrup, almeno due grossi cantieri attraggono l’attenzione: si tratta degli edifici che ospiteranno le nuove sedi del National Museum e del Munch Museum. Il primo, progettato da Kleihues + Schuwerk, aprirà il prossimo anno con una collezione permanente esposta di 5mila opere (arte dall’antichità a oggi, architettura, design, arti decorative) disposte su un’area di 13mila mq, in un edificio dotato anch’esso di servizi da far impallidire i nostri omologhi. Il secondo, inizialmente piuttosto malvisto dai norvegesi, dovrebbe essere inaugurato anch’esso nel 2020: si chiama Lambda ed è una struttura che “si inchina rispettosamente” verso l’Opera House, come hanno dichiarato i progettisti, gli spagnoli Herreros Arquitectos. E pure qui ci sarà una scultura ad accompagnare l’edificio: Mother di Tracey Emin sarà alta sette metri e collocata in “un sito per la contemplazione e la celebrazione delle sensibilità eterne femminili e matriarcali”, come ha dichiarato l’artista.
… E LE CHICCHE
Ma, al momento, di Munch non resta nulla? In realtà sì: si può visitare il suo monastico studio a Ekely, disegnato negli Anni Dieci da Henrik Bull. È aperto soltanto in occasione di mostre e al momento c’è la personale di Gaylen Gerber, artista invitato nel quadro della osloBIENNALEN; lo stesso Gerber è intervenuto anche nello headquarter a Myntgata 2, dipingendo di grigio una “baracca” che, con un gesto semplice e diretto, riporta immediatamente alla memoria l’occupazione nazista del Paese.
Medesima domanda per il Museo d’Arte Contemporanea: si può ancora visitare l’ex sede, che prima ancora era una banca? Questa volta la risposta è no, ma vi si è svolta la performance – sempre nel quadro della prima edizione della Biennale di Oslo – di Marianne Heier, re-enactement di quella tenutasi poche settimane prima all’Accademia di Brera di Milano, a cura di Alessandra Pioselli. Senza troppi giri di parole: l’opera più notevole di questa prima parte della rassegna, And Their Spirits Live On si chiudeva a Milano con gli studenti che cantavano Bella ciao, mentre a Oslo risuonava La voce della rivoluzione, brano scritto negli Anni Venti dal poeta Rudolf Nilsen. Entrambe “portano con sé il riferimento alle lotte di liberazione del secolo scorso”, ci ha raccontato l’artista, “ma allo stesso tempo creano una frizione col dramma politico dei nostri giorni. La canzone di Nilsen, cantata oggi dai giovani, sembra riferirsi alle proteste di Greta Thunberg quasi più che alla rivoluzione comunista. Insomma, rimane rilevante anche se i drammi intorno a noi sembrano cambiare”.
Tornando alle architetture: almeno una rapida visita al Rådhuset, il Municipio, va fatta. L’edificio lo noterete senz’altro, con quei mattoni bruni che incutono un certo timore e l’imponenza di una struttura che incarna perfettamente i decenni in cui fu costruita, dal 1931 al 1950. Qui si tiene ogni anno la cerimonia di consegna dei Premi Nobel e qui, sempre in occasione della Biennale, si tengono i concerti concepiti da Øystein Wyller Odden per gli spazi enormi della hall.
GALLERIE E ARTIST RUN SPACE
Diciamolo: il panorama degli spazi privati non è entusiasmante. Sarà per il proverbiale assistenzialismo socialdemocratico che in Scandinavia ha radici profonde, ma il risultato è evidente: spirito d’iniziativa latente, propensione al rischio assente.
Qualche eccezione c’è, a conferma della regola. A partire dalla galleria Standard, aperta nel 2005 e da anni presente ad Art Basel sia nell’edizione svizzera che in quella statunitense; promuove artisti norvegesi (e internazionali) con un certo successo – dovendo fare un nome: Torbjørn Rødland, che lo scorso anno ha avuto una importante personale all’Osservatorio Prada di Milano. Sempre a Basilea quest’anno si poteva vedere la galleria VI, VII alla piccola fiera June: fondata nel 2012 da Esperanza Rosales, fa un po’ il contrario di Standard, presentando in Norvegia artisti provenienti da altri Paesi; per i curiosi: “at sixes and seven” è un’espressione gergale britannica che indica l’imprudenza, il caos (creativo) che dovrebbe guidare le scelte della galleria. In questa direzione ideale si arriva a Galleri Golsa, nata nel 2015 su stimolo di Gard Eiklid e Tuva T. Trønsdal: giovani galleristi per giovani artisti, o viceversa.
La decana è invece Galleri Riis, fondata dalla coppia di collezionisti formata da Inger e Andreas L. Riis, attiva sin dal 1972 a Trondheim e giunta a Oslo nel 1980; una seconda sede a Stoccolma è stata attiva dal 2011 al 2017 (ora lo spazio è aperto solo su appuntamento), mentre nella capitale norvegese sono allocati, dal 2016, in un palazzo di fine Ottocento nel centro. Altro spazio storico è la Galleri K, aperta nel 1985 e focalizzata sull’arte moderna: la trovate anche al Tefaf con opere di Munch, Sohlberg, Picasso, Gauguin, Rodin… Animo “commerciale” anche per Galleri Brandstrup, inaugurata nel 2000 e partner della Sean Gallery di New York – collaborazione che ha permesso di rappresentare in esclusiva in Scandinavia blue chips come Marina Abramović e Joseph Kosuth.
Quanto agli spazi gestiti da artisti, un passaggio merita Noplace, fondato e diretto da Kristian Skylstad, Petter Buhagen, Hans Christian Skovholt e Karen Nikgol; è invece incentrato sulla fotografia Melk, fondato da Behzad Farazollahi e Bjarne Bare. Ma soprattutto è da citare la Kunstnernes Hus, la cui fondazione risale al 14 ottobre 1930. Sì, avete capito bene: 1930.
SPAZI VERDI E GITA FUORI PORTA
Vi dicevamo che il parco di sculture dell’Astrup è deludente. Però potete rifarvi in almeno tre modi. Innanzitutto con una visita all’Orto Botanico, fondato nel 1814 e afferente all’Università. Una decina di padiglioni, serre e aree tematiche inserite in un contesto curatissimo, con apertura tutti i giorni dalle ore 7 alle ore 21. Dobbiamo ripeterlo? Tutti i giorni dalle 7 alle 21. C’è poi la piccola area verde a Kontraskjæret, su cui si affaccia la Fortezza di Akershus – tappa obbligata per i tour più tradizionali.
Il top è però Ekeberg Parken: siamo in collina e, disseminate in questo angolo di paradiso, ci sono oltre quaranta sculture (a sostenerne le attività, il collezionista e filantropo Christian Ringnes). Si va dai più classici Rodin, Maillol e Renoir a lavori spesso site specific di Per Inge Bjørlo, Sarah Sze, Dan Graham, Roni Horn, Damien Hirst, Louise Bourgeois, Jake and Dinos Chapman, James Turrell, Marina Abramović… Il più iconico resta il trampolino di Elmgreen & Dragset, Dilemma (2017), che fa subito pensare a un altro trampolino, questa volta per sciatori anziché nuotatori. Il nostro consiglio per la gita fuori porta (ma ci potete arrivare in metropolitana!) riguarda infatti il mitico Holmenkollen, che è il nome della collina ma anche e soprattutto del più antico trampolino per gli sci al mondo. Buon salto!
– Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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