Paesaggio, turismo e pandemia: un “valore” da maneggiare con cura
Il paesaggio come bene-culturale è narrazione, riconoscibilità, e come tale è centrale nella definizione e nell’evoluzione sociale identitaria, non solo locale. Una complessità che ritroviamo non solo su come il paesaggio stesso viene raccontato ma anche su come viene percepito, apprezzato, vissuto. Ecco che allora pensare al turismo green (balneare o montano che sia), in un momento delicato come quello che stiamo vivendo, necessita di molta attenzione e soprattutto di non rincorrere frettolose riaperture. Il paesaggio è cultura, e come tale per valorizzarlo e proteggerlo al meglio serve riflettere sul suo valore, oggettivo e soggettivo.
Facciamola facile: se individuare una qualsivoglia strategia di riapertura del settore turistico e culturale (hard o soft che sia) deve giocoforza considerare i dati economici* ‒ o sull’occupazione, i consumi, le sponsorizzazioni o i prestiti mancati ‒, non può averli come riferimento unico, occorre altro: dati sugli impatti extra-economici, ad esempio? Ma per far questo servono indici e analisi da comparare, purtroppo a oggi pochissime. Ecco allora un punto fondamentale da cui ripartire nel post-pandemia: capire la composizione della “catena del valore” propria del settore culturale e a cascata quella turistica.
Perché voler colmare rapidamente (a tutti i costi) il vuoto monetario di un settore, quello turistico ad esempio, inquadrandone meramente l’aspetto “di massa”, significherebbe spingere ad azioni frettolose e scomposte, che potrebbero non solo portare il sistema al non equilibrio antecedente la pandemia, ma acuire il rischio di creare forti squilibri tra gli altissimi costi di gestione e il ridotto numero di accessi, quindi acuendo (se possibile) le conseguenze del COVID-19; ma anche creando ulteriori divari tra complessi grandi e piccoli, o tra quelli aperti e quelli semi aperti, tutti indistintamente legati a un unico bacino potenziale composto da flussi “interni” e pochi rientri effettivi.
Parlando di turismo, poi, non si può che parlare di paesaggio, e questo è il momento di riaffermare il principio di un “paesaggio come bene-culturale”: frutto di stratificazioni e azioni svolte in modo sostanzialmente dialettico tra uomo e natura. Un rapporto ora più che mai da valutare e rivalutare, che vive tanto nella sua propria dimensione storica quanto in quella proiettata al futuro. Un bene che non può essere cristallizzato, uniformato, come in passato in quanto soggetto a incessanti trasformazioni fisiche, giuridiche e dell’economia; e a quelle della comunità e delle peculiarità dei territori.
Pensare al paesaggio in questi termini significa orientarne cultura, narrazione, riconoscibilità, per gettare le basi oggi del nuovo turismo di domani. Città, spiagge, montagne e colline come bene e soggetto-oggetto giuridico nuovo, centrale nella definizione e nell’evoluzione sociale identitaria, non solo locale. Una nuova complessità interpretativa necessaria, che tocchi ogni approccio al paesaggio: su come viene vissuto e raccontato (come rurale, habitat naturalistico, bene e testimonianza storico-culturale, hub turistico) ma anche, e soprattutto, su come viene percepito, apprezzato; e solo da lì, poi, valorizzato e protetto. Ecco che allora oggi più che mai non serve avere fretta di soluzioni “magiche e immediate”, occorre pensare a cosa vogliamo che sia il nostro paesaggio domani, e cosa significhi per noi e per chi lo visita. Quindi serve capire cosa davvero determini l’atteggiamento delle persone nei confronti del paesaggio, serve allora ascoltarne le voci, le interpretazioni, al di là degli interessi miopi; e riflettere attentamente sul suo valore e sulla definizione personale e comune di questo valore.
COSTITUZIONE E CONVENZIONE
A provare a metter ordine a tale complessità, in principio, per l’Italia, fu la nostra Carta Costituzionale, all’art. 9: “La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Un tratto giuridico netto, di eccezionale lungimiranza e innovazione (datato 1947) che, collegando la promozione della cultura e della ricerca alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, “non proclama un principio astratto, ma stabilisce una concreta linea d’azione collegata ai diritti essenziali del cittadino […] diritti che contribuiscono al progresso spirituale della società e allo sviluppo della personalità individuale” (Settis).
In ambito comunitario invece abbiamo la Convenzione Europea del Paesaggio (COE, 2000) a delineare una chiara indicazione sul tema e sulla sua importanza. Qui il paesaggio diviene “elemento chiave del benessere individuale e sociale” costituito essenzialmente dalla e sulla “percezione del territorio che ha chi ci vive o lo frequenta a vario titolo”. Una svolta epocale nell’idea stessa di paesaggio, delle sue proprie prerogative di habitat umano come bene complesso e mutevole, legante della comunità, garanzia di cittadinanza e strumento di eguaglianza fra i cittadini, dunque di democrazia.
L’Italia, inoltre, nella ratifica della stessa Convenzione (DL 9 gennaio 2006, n. 14), aggiunge che “le persone hanno il diritto di vivere in un paesaggio che risulti loro gradevole”. Una svolta nella svolta, che porta con sé inedite prospettive e responsabilità per ciò che concerne non solo la tutela, ma che riguarda anche il miglioramento della qualità percettiva del paesaggio. È infatti “la percezione delle popolazioni, ossia il senso socio-culturale attribuito da esse ai propri luoghi di vita, che segna il passaggio dalla porzione di territorio al paesaggio”. (Michela Saragoni).
L’uomo e il suo ambiente sono così legati da una interrelazione “circolare”, in una reciproca capacità di influenza e modifica. Un processo di elaborazione culturale e di significati, comuni e personali, non solo come mero processo fisiologico, in cui la sfera emotiva e quella identitaria della società, assieme ai processi di identificazione e senso di appartenenza, assumono una valenza nuova: la percezione sociale è elemento strutturale del paesaggio tanto quanto il paesaggio stesso è elemento strutturale della società. E le piazze deserte, le spiagge vuote, le montagne silenziose ce lo hanno ricordato.
PATRIMONIO CULTURALE E PAESAGGIO
Perché considerare la qualità del paesaggio in un’ottica di reciprocità significa, da un lato, che la percezione del paesaggio ha (dovrebbe avere) un ruolo fondamentale nella definizione del livello di qualità stessa del paesaggio; e, dall’altro, che la qualità del paesaggio ha, a sua volta, capacità di incidenza sulla qualità di vita dell’uomo. Sfortunatamente, però, stando alle ultime analisi BES dell’ISTAT (2017), che riscontrano che “mentre la qualità percepita dei luoghi di vita tende a peggiorare, sempre meno italiani considerano prioritario il problema del degrado del paesaggio”, il quadro d’insieme pre COVID-19 ci appariva a tinte fosche, costellato di molte questioni ancora aperte, soprattutto riguardo la percezione dell’importanza personale e condivisa del paesaggio.
Come il più blasonato “patrimonio culturale”, difatti, anche quello paesaggistico, naturale o urbano, purtroppo paga il fatto di esser percepito ancora troppo spesso come un elemento estraneo al proprio sé. E se considerato, lo è quasi sempre in chiave limitante piuttosto che come un elemento di potenziale sviluppo sociale ed economico. Per invertire questa pericolosa tendenza che spinge all’abbandono e alla noncuranza, foriere di degrado e lacerazioni, allora occorre che le “politiche del paesaggio”, oggi considerate sempre più strategiche nell’ambito di una governance del territorio sostenibile, mirino a valorizzare il ruolo delle comunità locali nelle dinamiche di gestione e partecipazione attiva di quegli stessi territori, soprattutto nelle nuove generazioni. Occorre riaffermare una nuova cultura del paesaggio affinché si innesti una più ampia riforma economica del turismo culturale, per iniziare oggi una revisione dei flussi che nasca dall’accoglienza attiva, non dall’intercettazione passiva; che nasca dalle narrazioni, dalle voci dei territori, per facilitare la conservazione e la diffusione delle singolarità dei luoghi e delle diversità territoriali in generale; che esprima i bisogni e valori essenziali di chi di quel territorio ne è rappresentanza e testimonianza viva, per rafforzare il sentimento di appartenenza e di radicamento; che curi i soggetti più sensibili e vulnerabili, con particolare riferimento ai bambini (che erediteranno ciò che noi lasceremo) per ri-costruire le relazioni tradizionalmente esistenti tra società e territorio.
UNA NUOVA NORMALITÀ
Si lavori su questo allora: creare una consapevolezza basata su un principio di sana appartenenza e responsabilità dei luoghi, da trasmettere anche ai futuri visitatori per creare un nuovo turismo basato sull’idea di una cittadinanza temporanea. E non tanto per ottenere solo un livello della qualità del paesaggio accettabile, gradevole secondo le statistiche, ma piuttosto perché lo sviluppo di sensibilità e consapevolezza diffusa che quello stesso paesaggio che oggi ci affrettiamo a voler tornare a invadere è l’unico vero garante per il raggiungimento di un equilibrio dinamico nello sviluppo tanto di città e territori, quanto di cuori e menti di chi quei territori li vive.
Insomma, ciò che va compreso (e va compreso in fretta) è che non è possibile tornare rapidamente alla “normalità”; piuttosto ora occorre fare del ritorno a una “nuova normalità” il vero obiettivo, imparando da questa crisi, per darci risposte, adattarci e integrarci in modo efficace nel mondo che sarà. Oggi abbiamo questa occasione (l’ennesima), sta a noi saperla cogliere.
‒ Massimiliano Zane
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