Italia fantasma. Gibellina: il solitario antidoto alla solitudine
Il nostro viaggio lungo l'Italia dell'abbandono ci porta infine fra il cemento e le macerie del Grande Cretto di Alberto Burri.
Non vale la pena addentrarsi, inoltrandosi spericolatamente, nella palude impervia dei commenti personalistici rispetto a quanto accadde nella ricostruzione della città di Gibellina, con la ricostruzione a seguito del terremoto del Belice del 1968. Le contrade e le fazioni di intellettuali, giornalisti, scrittori, opinionisti, addetti ai lavori, curatori, artisti e via discorrendo, si sono già lungamente confrontate (o, più precisamente, scontrate) rispetto all’idoneità e all’adeguatezza del progetto: sia in una dimensione di riqualificazione generale che in un’ottica, più nel particolare, di giustapposizione di opere d’arte: modalità attraverso cui la città nuova è stata ripensata.
Un dato è certo, però: durante l’emergenza della quarantena, né l’antica e defunta città di Gibellina, oggi identificata nel meraviglioso Grande Cretto [(1984-89 (parziale), 2015 (totale)] a opera di Alberto Burri e né la nuova città progettata dai prestigiosi nomi chiamati in causa per la ricostruzione, dopo il disastro e il conseguente spopolamento della prima, hanno visto la presenza degli esseri umani a camminarle, a conferirle vita.
Le due realtà, distanti undici chilometri in linea d’aria l’una dall’altra, entrambe appartenenti al libero consorzio comunale di Trapani in Sicilia, si sono viste definitivamente e temporaneamente svuotare, nell’ordine: dei propri curiosi viaggiatori meditabondi, l’una, e dei propri abitanti, l’altra.
L’ASSENZA NEL GRANDE CRETTO
A risaltare, invece, ovviamente, come nel resto d’Italia, è stata l’assenza.
Quell’assenza, silenziosa e sinistra, che, più del solito, s’immagina, abbia avvolto soprattutto il Grande Cretto di Alberto Burri: ad oggi una delle più grandi e imponenti opere di Land Art realizzata site specific al mondo. Quando si va alla ricerca del Grande Cretto e lo si trova, inevitabilmente, quel desiderio inconscio di desolazione che ci ha sospinti fino a lì nelle aride e rigogliose terre dei vespri perenni siciliani, bisogna riconoscere, corrisponde a una sotterranea esigenza di memoria altrettanto violenta e insopprimibile, a una non dichiarata necessità di passato, di vita antica non più pervenibile, non ulteriormente rintracciabile, se non nella spiritualità che avvolge alcuni luoghi, al di là della loro vitalità.
L’energia che si percepisce, camminando all’interno dei tagli (“vie”) del Grande Cretto in cemento e antiche macerie, insuffla nei polmoni e negli occhi una indefinibile quantità di energia per il futuro che – si odora sin da subito – affonda le proprie radici nel passato. Nella storia, anche se recente. Anche se apparentemente sepolta. I drammi non hanno tempo e solo i grandi artisti, come Alberto Burri, riescono a slacciare le cose della vita terrena da questo concetto così astratto, eppure così percepibile sulle nostre esistenze quotidiane. Sottrarre all’infermabilità inesorabile del tempo qualcosa, equivale a renderlo immortale. Anzi a collocarlo, perlomeno emotivamente, in una dimensione che si configura al di là del perire, del non esistere o, al contrario, dell’essere in vita. Deflagrando oltre ogni labile e inutile confine che separi, come da abitudini, il passato, il presente o, ancora, ogni futuro possibile.
IL TEMPO FRA BENJAMIN E GIBELLINA
“Il tempo che attira lo sguardo di Walter Benjamin” – stando al libro Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello, a cura di Massimo Adinolfi e Massimo Donà (2017) – “non è l’avvenire, ma l’istante che interrompe la durata, sostituendone la pretesa dialettica. Esso non si pone al centro di una percorso cronologico alternativo a quello in corso, ma si installa come un vortice all’interno del tempo-ora (‘Jetztzeit’) in cui sono conficcate schegge di passato e di futuro. Piuttosto che separare il futuro dal passato, è lo stesso istante che si sdoppia in un segmento preistorico e poststorico. Ma esso è anche il punto in cui la realtà entra in contatto con la dimensione dell’eterno. Questo, a sua volta, ha un doppio profilo: quello di una fuoriuscita dalla ruota del tempo e quello di un destino infrangibile che afferra la vita degli uomini”.
Risulta essere senza tempo, dunque, non solo il Grande Cretto ma, anche, di rimando, l’esperienza che ne si può ottenere: ancora di più quando, come oggi, l’essenza di un’opera si disvela a causa delle odierne circostanze attorno che impongono di allinearsi all’origine, al movente, per cui essa è stata portata a termine ed eseguita all’epoca.
IL GRANDE CRETTO E IL PAESAGGIO
L’accostamento e la visione, soprattutto in questo tempo, del Grande Cretto in relazione al paesaggio, al territorio in cui esso è incastonato come una perla mastodontica, grezza, supina e dormiente, ci porta, inoltre, a imbatterci in uno di quei rari cortocircuiti spaesanti dell’animo che ci suggeriscono l’inevitabile accostamento con quell’enigma irrisolvibile di Jean-Luc Godard, il quale sembra potersi imbattere in noi, inciampando sulle nostre emozioni, in un momento qualsiasi del nostro cammino all’interno del Grande Cretto e sussurrarci: “Non saprai mai se un ricordo è qualcosa che hai o che hai perso per sempre”.
La terra di Sicilia accoglie e respinge, stride e abbraccia, ma sicuramente s’intreccia con inaspettata accoglienza a questo innesto dei giorni d’oggi che, ancora più di prima, senza che vi fosse richiesta alcuna spiegazione, trova una spiegazione. Un’esegesi ancora più evidente, ancora più suggestiva. La desolazione livellante tra la nuova e la vecchia città di Gibellina, dettata dal terrore alienante e desertificante del Covid-19, si unisce, come un altro tassello di un grande mosaico appartenente alla parete Italia, alla meraviglia della nostra Storia che stupisce e consola, anche quando, purtroppo, fuori è tutto una grande, ingombrante, solitudine.
– Luca Cantore D’Amore
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