“I migliori abitanti di Roma? Sono i turisti!”, sogghigna, beffardo e ironico, Jep Gambardella, nei primi minuti de La Grande Bellezza (2013), di Paolo Sorrentino. Ed è evidente che quella frase farcita di ostentata leggerezza ‒ ma che, in realtà, cela un’amara rassegnazione! ‒eruttasse di un malcontento simile a ogni “segreto di Pulcinella” che si rispetti: di quelli che tutti conoscono, ma che nessuno dichiara. E la triste verità che, come una sindone, avvolge le parole del protagonista del film Premio Oscar in riferimento alla Capitale è quella per cui, purtroppo, di Roma, negli ultimi dieci anni specialmente, ciò che risalta maggiormente non è il suo tanto decantato e innegabile splendore, quanto il caos all’interno del quale, Lei, irrimediabilmente ormai versa. E quanto più si procede con l’avanzare degli anni, purtroppo, tanto più Roma appare come affetta da un morbo degenerativo e terminale tipico dell’anzianità inconsolabile e irreparabile; poiché, a differenza delle altre metropoli che conosciamo e a cui siamo abituati, che fanno della loro caotica condizione un fattore endemico che da sempre le caratterizza ‒ si pensi alle varie Napoli, Istanbul, New York, Londra o Tunisi ‒, Roma, nel caos più incontrollabile, sembra esserci precipitata verticalmente solo da qualche tempo: da questo, la sua non gestibilità. Non era pronta alle pieghe (piaghe!) che Lei stessa avrebbe potuto prendere. Sembra essere stata spiazzata da se stessa. Nei progetti di più di due millenni fa, insomma, probabilmente, quando si fondava il concetto di “Città moderna” e l’ispirazione a cui rifarsi erano rasserenanti colli verdi, rassicuranti distese di terre di grano d’oro e un rigore urbano che, addirittura, pian piano, iniziava a diventare una scienza esatta, non era pronosticato che un tale dolente clima di imprevisto e disarmonia s’impossessasse del modus vivendi della Città eterna che, contraddicendo la sua più convincente etichetta, mai come ora, appare, più che “eterna”, assolutamente moribonda.
ROMA E IL TURISMO
L’umano formicaio, turistico e non, che sembra essersi appropriato dell’identità della Capitale, di colpo, sta pian piano erodendo, sgretolandolo, facendolo evaporare, proprio quel fattore identitario per cui, da ogni parte del mondo, si organizzano aerei, treni e autobus, per camminare sull’inconfondibile porfido delle strade di Roma. La città, insomma, pare non appartenere più ai suoi abitanti e il cuore pulsante dell’Urbe, Trastevere compresa, sembra essere diventato nella sua interezza una patetica Dismaland (Banksy, 2015), tutta paillettes attaccati male e souvenir al ribasso, in favore della foto più turistica (a oggi, per nobilitarla, etichettata con parole come “caratteristica” o “tradizionale”) e dell’inesauribile stupore di turisti che, per dirla alla Paolo Sorrentino, punto di inizio e di fine del nostro triste breviario romano: “sono sempre stupiti di ogni cosa. Sembrano sempre essere venuti al mondo l’altro ieri” (Hanno tutti ragione, 2010).
Il dazio da pagare per tutto questo, infine, è quello per cui si ha la costante e mortificante ‒ per quanto talvolta fallace ‒ sensazione che il turista conosca Roma più di quanto a un suo abitante sia stato possibile fare in tutta una vita. Scorribandando istericamente per ogni centimetro della Capitale, oltre che padroneggiandola con la facilità di chi ci è nato, il cuore di Roma è, a oggi, come solo per un’altra città manifesto accade (Venezia), in mano a chi la visita. Anche quando a compiere questo piccolo quotidiano attentato inconsapevole siamo “noi”. Fortunatamente, però, come in tutte le cose, c’è un rovescio della medaglia. E, generalmente, questo rovescio riserva sorprese in positivo. Difatti, dinanzi a una così esuberante e inevitabile “presa della Bastiglia”, si è registrata, specialmente negli ultimi anni (guarda caso!), da contraltare, una tendenza a lasciare, nel tempo libero, i sovraffollati e asfissianti luoghi della città in favore delle limitrofe scoperte di paesi, realtà, territori, parchi, borghi in cui si può facilmente inciampare, semplicemente spostandosi di qualche chilometro.
STORIA E ARCHITETTURA DI MONTERANO
Ed è probabilmente proprio grazie a uno spostamento che, magari in un giorno qualsiasi, si può scoprire, tra gli altri, uno dei luoghi dell’incanto limitrofi alla stressante Roma che conosciamo: Monterano. Set di innumerevoli lavori televisivi e cinematografici, Monterano, si svela nel suo splendore silente, rovinoso, remoto, ma allo stesso tempo virile e convinto, a chiunque la osservi o riesca a raggiungerla. Ciò che salta subito alla nostra attenzione è la splendida fontana ottagonale che, come un’anticamera, precede l’incanto onirico del luogo, ormai disabitato da più di due secoli. Affidata a Gian Lorenzo Bernini, come per molte altre costruzioni architettoniche del luogo, grazie all’illustre committente Clemente X, la fontana s’innesta come un diamante attorno a cui tutto e accaduto. Anche ciò che le fonti ci dicono averla preceduta. Tra una vegetazione rigogliosa che sembra talvolta prendere il sopravvento e talvolta convivere con il borgo disabitato che la accompagna e le testimonianze architettoniche e storiche che evidenziano varie epoche e stili ‒ dal Rinascimento al Barocco, dall’antichità alla storia moderna, dal periodo etrusco all’impero romano ‒, Monterano sembra essersi imbalsamata e sembra rispettare chi arriva a visitarla, srotolando dinanzi agli occhi le sue ricchezze come il mercante arabo con i suoi tappeti. Durante una altalenante storia che ha visto susseguirsi diversi fallimenti e diversi rinascimenti, l’uno dietro l’altro, Monterano, infatti, conserva ed esibisce, con silenziosa discrezione, architetture e testimonianze di inestimabile valore che, con lo splendore affascinante dell’antico, ne sottolineano la storia variopinta, tormentata e, appunto, ondivaga e altalenante. Frastagliata e contraddittoria. Tutto appare intrigante a Monterano: grazie agli spigoli, non spigolosi, dei suoi angoli e delle sue mini vedute. Dal Palazzo Baronale alla Chiesa e Convento di San Bonaventura, dai sepolcri etruschi riabilitati in cantine a recenti riqualificazioni e ribonifiche come quella destinata all’antico acquedotto.
RISCOPRIRE I LUOGHI ABBANDONATI
Tutto ciò che è accaduto ‒ e che per alcuni versi ancora accade ‒ a causa della emergenziale situazione dettata da questo oscuro male chiamato “virus” nel 2020, ancora una volta, ha livellato l’abbandono di una remota e amena località dimenticata alla frenesia di una metropoli, purtroppo, che ha un urgente bisogno di rinascita e che, inoltre, appare molto più sul punto del patibolo di quanto appaia, invece, un luogo già “morto” da secoli come Monterano. Ne ha reso possibile un paragone, perlomeno emotivo. Mettendo sotto i riflettori della ragione sentimentale la vita all’interno della morte (a Monterano) e la morte, invece, purtroppo, che minaccia la vita (a Roma). Questo è quello che sta accadendo e questo è quello a cui gli “amatori” della bell’Italia dovrebbero far caso. Laddove per amatore s’intende non solo, letteralmente, “colui che ama” (in questo caso, la sua nazione) ma, anche, colui che è fornito di una qualità dolcemente dilettantistica che, proprio in quanto “amatoriale”, lo rende invincibile: poiché in buona fede e senza pretese. Con nulla da perdere e tutto da guadagnare. Da imparare. Tutelando luoghi, identità e storie, anche quelli fino a questo momento sconosciuti. Il tutto, al solo costo di un viaggio. Di un piccolo viaggio. Anzi, di uno spostamento. Di pochi chilometri e poche ore. Giacché, giusto per ritornare all’inizio del nostro ‒ forse eccessivo ‒ citazionismo: “È così triste essere bravi, si rischia di diventare abili” (Jep Gambardella, La Grande Bellezza).
‒ Luca Cantore D’Amore
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