Dalle stalle alle stelle: come sta cambiando il turismo culturale
I modelli standardizzati, per il turismo, non valgono più. E la pandemia ha contributo a scardinarli una volta per tutte. Ma allora quali saranno gli sviluppi del turismo culturale? Le riflessioni del dottore commercialista Irene Sanesi
Non è casuale l’espressione utilizzata nel titolo, in quanto richiama due cliché ormai storicizzati del modello di business del turismo in Italia (e non solo): quello più bucolico degli agriturismi e quello tipizzato degli hotel classificati con le stelle.
Provocatoriamente vorrei affermare che entrambi sono ormai obsoleti. Il Covid non ha fatto altro che svelare un terribile ritardo da parte del settore turistico ricettivo rispetto alla necessità di intervenire in maniera innovativa, superando i confini, di cui già aveva preso coscienza, di luogo/nonluogo.
L’istanza di relazione e identità era infatti emersa in maniera trasversale e poco importava il posizionamento; in altre parole, anche un hotel di top gamma si era posto il problema perché l’era della standardizzazione ha chiuso i battenti da un pezzo e inediti concetti di welfare e wellbeing insieme a nuove sensibilità su sicurezza, compliance ed esperienza avevano fatto capolino.
Di questa rivoluzione le città d’arte, i musei e il museo diffuso che è l’Italia insieme alle imprese culturali e creative dovrebbero preoccuparsi e occuparsi perché possono esserne protagonisti e divenire soggetti trainanti.
“L’ospitalità non è più appannaggio di chi lo ha fatto di mestiere finora perché stanno cambiando i paradigmi”.
Mi spiego meglio. Il modello agrituristico con le sue stalle e le sue fattorie cederà il passo a un modello di turismo all’aria aperta che continuerà ad avere il suo fulcro nella natura ma con canoni innovativi sul tema ambientale: si pensi a quanto poco siano sviluppate le ciclovie, nonostante un clima mediterraneo indulgente e un’integrazione arte-paesaggio pressoché totale. Gli hotel, stelle a parte, per essere riconosciuti e riconoscibili dovranno puntare a format ibridi in cui la notte rappresenti la minima parte della proposta di ospitalità: servizi, comunicazione e un alto tasso culturale tradotto nei vari linguaggi (dalla musica alla letteratura, dalla scultura al teatro) potranno fare la differenza dell’esperienza.
All’estero stanno germogliando casi interessanti a cui guardare e ispirarsi, come quello pensato dalla galleria Hauser & Wirth nel Somerset.
PAROLA D’ORDINE: IBRIDAZIONE
Come dire: l’ospitalità non è più appannaggio di chi lo ha fatto di mestiere finora (dalle famiglie alle grandi catene) perché stanno cambiando i paradigmi. La parola d’ordine è ibridazione: uno dei progetti più stimolanti che ho seguito nel primo lockdown ha riguardato proprio la rigenerazione di uno spazio in una città d’arte per ripensarlo come luogo di ospitalità all’insegna dell’arte. Potrebbe nascere una filiera straordinaria che interconnette gli immobili svuotati dalla pandemia, le imprese culturali e creative locali, i beni culturali e fare di questi nuovi luoghi non tanto dei punti di arrivo (dove sistemare le valigie e dormire) quanto dei punti di partenza per lo svelamento e la scoperta del territorio e delle comunità.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #62
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