Ristoranti nei musei in Italia. Il punto e la mappa
Il primato spetta al Victoria & Albert Museum di Londra, che già nel 1857 disponeva di spazi adibiti al ristoro. Ma l'Italia non è da meno: è infatti nei pressi di Torino, al Castello di Rivoli, che è nato il matrimonio fra arte contemporanea e alta gastronomia, incarnata dallo chef Davide Scabin e dal suo Combal.Zero. Com'è evoluto nel tempo questo rapporto? Ve lo raccontiamo qui
“Un viaggiatore degli Anni Cinquanta sarebbe certamente rimasto stupito nell’apprendere che oggi, nei nostri musei, è possibile mangiare (e mangiare bene), fare acquisti, ascoltare un concerto o partecipare a un ricevimento”. Lo scrive lo storico dell’arte statunitense Andrew McClellan nel 2008, in un testo che indaga l’evoluzione del museo, mentre i servizi aggiuntivi conquistano uno spazio sempre più articolato e autonomo nell’ambito dell’esperienza museale. Uno spunto critico registrato quindici anni or sono, non privo di una malcelata preoccupazione per il destino dei musei e della loro identità, e pronto a ribadire la necessità di mantenere separati i ruoli (su una linea di pensiero che ancora incontra diversi illustri fautori, preoccupati dalla “commercializzazione” della cultura).
Eppure, proprio in America, già nel 1954 il Metropolitan Museum of Art di New York si dotò di una caffetteria che avrebbe precorso i tempi. Per non parlare dell’esperienza inglese al Victoria & Albert Museum, vero pioniere della ristorazione museale, avviata già nella seconda metà dell’Ottocento.
IL MUSEO COME SPAZIO DA VIVERE
Oggi il quadro è molto cambiato, in funzione di un’identificazione del museo come luogo di aggregazione essenziale nella costruzione di un senso e di una memoria di comunità. Del resto, quando nel delineare una definizione di museo aggiornata sulle esigenze correnti, l’ICOM – che auspica un’istituzione accessibile e inclusiva – si dilunga nella descrizione di luoghi in grado di offrire “esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”, non fa che confermarne la pluralità di intenti e opportunità da mettere al servizio della collettività.
Uno spazio piacevole da vivere, non solo per la sua missione culturale e divulgativa, ma anche per la bellezza dei luoghi e per la qualità dei servizi proposti, fa bene a tutti: alla città e a chi la abita, al sistema turistico e imprenditoriale. E se all’estero la sinergia con la ristorazione già da tempo produce ottimi risultati, anche l’Italia, nell’ultimo decennio, ha iniziato a muoversi con una consapevolezza crescente. Che si tratti di istituzioni pubbliche o private, la compagine di realtà culturali inclini a scommettere su progetti gastronomici che non releghino l’offerta ristorativa del museo a semplice necessità, cresce di anno in anno. E per chi ha l’ambizione di investire nel settore con cognizione di causa arrivano anche importanti riconoscimenti.
I TRAGUARDI DELLA RISTORAZIONE MUSEALE
A Milano – unica città italiana a vantare un ristorante museale tristellato, con Enrico Bartolini all’ultimo piano del Mudec – la Fondazione Luigi Rovati non ha mai nascosto l’aspirazione del suo progetto. Alla fine dell’estate scorsa, il palazzo di corso Venezia 52, restaurato e riqualificato dallo studio MCA – Mario Cucinella Architects, ha aperto le porte al pubblico, con l’ipogeo dedicato alla civiltà etrusca, gli spazi espositivi del piano nobile dedicati all’arte contemporanea, i suoi molteplici servizi, dalla sala studio al punto vendita della casa editrice Johan & Levi, al caffè-bistrot con affaccio sul giardino interno. E il ristorante all’ultimo piano dell’edificio, con la cucina firmata da Andrea Aprea, negli ambienti progettati da Flaviano Capriotti (che ha disegnato anche il bar). Non un volto nuovo per la città, quello del cuoco campano, che subito ha riconfermato il proprio valore, portando una nuova stella Michelin a Milano.
Certo non sono solo, o necessariamente, i riconoscimenti di una guida a decretare se è stata intrapresa la strada giusta: citiamo l’esempio controverso del Combal.Zero di Davide Scabin, per anni tempio dell’avanguardia gastronomica al Castello di Rivoli, esperienza naufragata nel 2020 per questioni di mala gestione, che nulla tolgono alla genialità del cuoco, ma fanno riflettere sulla sostenibilità economica dell’alta ristorazione, e su quanto sia rischioso investirvi. Ma permettere a chef di alto profilo di esprimersi nell’alveo di un luogo dove si fa cultura, oltre che ontologicamente sensato (perché il cibo è cultura, al di là degli sterili slogan che hanno banalizzato questa verità), si rivela spesso un buon affare. Seminale, in tal senso, è stata proprio l’esperienza di Scabin al Castello di Rivoli. Nel 2002, lo chef piemontese trasferisce il suo Al Combal dalla bassa Val di Susa di Almese alle porte di Torino: l’avanguardia che aveva iniziato ad agitarsi sotterranea, e quasi clandestina, nella sua cucina di provincia, trova nel Castello di Rivoli un palcoscenico di prim’ordine. Museo e ristorante si potenziano vicendevolmente, e il Combal.Zero esprime un’idea di ristorazione mai vista prima in Italia; ma l’idillio si spezzerà progressivamente, incapace di resistere alla tempesta di una gestione genio e sregolatezza.
Più o meno in concomitanza, si conclude nel 2019 anche un altro sodalizio lungimirante e longevo, quello tra Antonello Colonna e il Palazzo delle Esposizioni di Roma: già nel 2007, il cuoco di Labico porta, con Open Colonna, la sua idea di ristorazione museale nell’attico-serra progettato da Paolo Desideri. Bisognerà aspettare qualche anno prima che un altro chef votato alla creatività trovi lo spazio di manovra ideale all’interno di un museo: è il 2012 quando Cristiano Tomei trasferisce L’Imbuto negli spazi del LU.C.C.A.
In tempi più recenti, hanno raccolto il testimone numerosi rappresentanti di spicco del panorama gastronomico italiano, sostenuti dall’iniziativa di istituzioni museali di vario profilo. Alfio Ghezzi, cuoco trentino con trascorsi illustri, ha incrociato la strada del MART di Rovereto nel 2019, modulando una duplice offerta, tra alta cucina (Senso, pure lui stellato) e bistrot: “Aprire un ristorante dentro a un museo fino a pochi anni fa sembrava poco logico, e invece si è rivelato un’opportunità. Il museo è un luogo di aggregazione, dove le persone si recano per stare bene: quando ho scelto il MART ho valutato l’opzione di precludermi un certo tipo di clientela, ma le persone che amano l’arte possono avere uno spiccato interesse per il lavoro che facciamo al ristorante. Sono modi di vedere sostenuti da una sensibilità comune, a patto di lavorare in coerenza con il luogo che ci ospita e comprendere le esigenze dei visitatori. Per questo trovo che il museo sia il mio luogo ideale”. Senza contare le ricadute pratiche del sodalizio: “Siamo in provincia, i flussi non sono mai costanti come avviene nelle grandi città, ma qui il museo diventa volano, centro di attrazione: una mostra che funziona giova a noi e a tutta la vallata. Per contro ci sono gourmet che scelgono di fermarsi qui per il ristorante, e con l’occasione decidono di visitare il museo. Diventa un’attività sinergica. Siamo più spesso noi a beneficiarne, soprattutto nella parte del bistrot: essere collocati in un contesto che attira un certo tipo di clientela è molto positivo per la sostenibilità dell’impresa”.
RISTORANTI AL MUSEO TRA SUCCESSI E DIFFICOLTÀ
Hanno precocemente investito su servizi di ristorazione degni di nota anche il Centro Pecci di Prato, dov’è storia di lungo corso il sodalizio con chef Angiolo Barni, patron di Myo; Villa Bardini a Firenze, con Filippo Saporito e La Leggenda dei Frati, che in sala dà spazio a una collaborazione ultradecennale con la Galleria Continua di San Gimignano; la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, con il ristorante Spazio7, che ha mantenuto la stella nonostante il recente cambio chef, con l’arrivo di Antonio Romano. Sempre nel capoluogo piemontese citiamo la Reggia di Venaria Reale, dove si mangia alla tavola del Dolce Stil Novo, e il progetto La Pista 500 della Pinacoteca Agnelli, che sul tetto del Lingotto ha voluto anche un ristorante d’ambizione, La Pista.
Diverso, ma comunque calato nell’universo culturale e della committenza artistica, è il caso del progetto che nel 2022 ha portato Luigi Taglienti a Piacenza, negli spazi adiacenti alla galleria Volumnia, per volontà di Enrica De Micheli. Una scommessa che, a meno di un anno dall’esordio, sta rivelando la sua solidità. Mentre a proposito di riconoscimenti recenti arriviamo a Palermo per segnalare un’altra nuova stella, che premia il lavoro di Carmelo Trentacosti al MEC, peculiare ibridazione tra museo (sulla storia dei computer) e ristorante ideata da Giuseppe Forello, negli ambienti storici di Palazzo Castrone. All’estremo opposto della Penisola, bisogna salire oltre i 2mila metri di quota della stazione a monte di Plan di Corones (Brunico) per visitare Lumen, museo della fotografia di montagna: nello spazio vetrato e iperpanoramico proteso verso le vette, Norbert Niederkofler ha condensato la filosofia di Cook the Mountain nel progetto di ristorazione Alpinn. Già diventata un classico della moderna cucina d’autore è invece la Gucci Osteria, che ci riporta a Firenze per scoprire il ristorante affidato alla supervisione di Massimo Bottura (ma sotto la guida sicura di Karime Lopez e Takahiko Kondo), nato in continuità con il Museo Gucci di piazza della Signoria. Non molto distante, stando alle anticipazioni del direttore Eike Schmidt, anche gli Uffizi si doteranno per la prima volta di un ristorante.
MANGIARE AL MUSEO TRA ROMA E MILANO
Roma si conferma una piazza difficile (o non abbastanza ambiziosa?) per la ristorazione museale, nonostante l’esperienza precoce del fu Open Colonna. Nella Capitale, dove neanche un polo importante come il MAXXI ha ancora trovato una soluzione coerente con il proprio profilo (mentre il bar del museo gira decisamente bene e risponde alle esigenze di chi lo frequenta), hanno aperto negli ultimi mesi progetti, un po’ sottotono, come Molto alla Galleria Borghese e Livia a Palazzo Massimo; mentre più soddisfacente è il Caffè Doria, che completa il percorso di Palazzo Doria Pamphilj negli ambienti che furono le scuderie della dimora signorile, e peculiare l’esperimento di Spazio Field a Palazzo Brancaccio, con il ristorante Roland.
Ricollegandoci alle battute iniziali, proprio Milano sembra aver capitalizzato al meglio le opportunità del sodalizio tra cultura e gastronomia. Oltre ai già citati Mudec e Fondazione Luigi Rovati, la storia della ristorazione museale in città prende le mosse dal Museo del Novecento, con Giacomo Arengario negli spazi progettati da Laura Sartori Rimini e Roberto Peregalli, e si declina in direzioni molteplici, dal panoramico ristorante La Torre in Fondazione Prada, con la cucina brillante di Lorenzo Lunghi (per Artribune è il miglior ristorante museale del 2022), al salotto di Vòce per Gallerie d’Italia, alla Terrazza Triennale, alla moltitudine di caffetterie – spesso con piccola cucina – nate a corredare l’offerta di musei vecchi e nuovi. Format strategico nell’accompagnare le attività museali, il bar – a patto di non limitarsi a qualche panino stantio e caffè imbevibili – può rivelarsi un’ottima vetrina per il museo. A Milano convincono Fernanda alla Pinacoteca di Brera, il Lùbar della Galleria d’Arte Moderna, l’Officina Design Cafè dell’ADI Design Museum (questi tre sono dei bar abbastanza ordinari quanto a contenuti, ma davvero curati in termini estetici e architettonici), l’immaginifico Bar Luce ideato da Wes Anderson in Fondazione Prada. E poi il ristoro e gastronomia Degustazione, alla Casa degli Artisti, che settimanalmente organizza anche un mercatino di frutta e verdura invitando produttori lombardi. Si distingue, nel genere, anche la pasticceria raw – vegan e crudista – di Vito Cortese (Cafè 900), elegante appendice del Museo Novecento di Firenze, con dehors nel loggiato affacciato su piazza di Santa Maria Novella. Mentre debutterà nel 2023 la prima caffetteria del MArTa di Taranto.
IL MODELLO GALLERIE D’ITALIA
Nel panorama nazionale, è Intesa Sanpaolo a consolidare una strategia esemplare sul tema: dopo il milanese Vòce, in Piazza della Scala, il gruppo fautore delle Gallerie d’Italia conferma la capacità di selezionare personalità gastronomiche che sappiano portare un valore aggiunto all’esperienza museale, con buona dose di sperimentazione e volontà di esplorare nuovi linguaggi, lavorando peraltro sulla qualità in tutte le tipologie d’offerta.
“È un tema su cui abbiamo molto ragionato”, spiega il direttore di Gallerie d’Italia Michele Coppola, “tanto da produrre una sorta di documento programmatico che contiene le riflessioni sulla materia: Gallerie d’Italia Kitchen. Se il museo è il luogo che valorizza e promuove la cultura, in Italia non può non tener conto di quanto la gastronomia esalti le identità territoriali: il connubio ci è sembrato naturale. Finora questo impegno ci ha premiato, sin dal primo progetto in piazza della Scala, a Milano, dove con Vòce abbiamo scelto di amplificare la funzione del contesto, ideando una piazza gastronomica, così che il museo potesse affacciarsi sulla città”. Anche per la qualità della proposta concertata dal team di Aimo e Nadia – con Alessandro Negrini e Fabio Pisani a guidare le operazioni in cucina – Vòce ha fatto scuola, e il gruppo ha scelto di replicare l’approccio in piazza San Carlo, a Torino, e in via Toledo, a Napoli: “Alla base c’è il principio della rigenerazione urbana. Quando con Michele De Lucchi [che con AMDL Circle segue la progettazione architettonica di Gallerie d’Italia, N.d.R.] abbiamo ragionato sulle trasformazioni di Torino e Napoli, ci siamo detti che i musei del presente, pur partendo dalle collezioni, devono aprirsi alla città. Sono luoghi di esperienza, che nascono all’interno di palazzi storici e di pregio trasformati per essere centro di cultura, ma anche motore di business, per sostenere la piccola e media impresa, com’è nella filosofia di Intesa Sanpaolo. E così Kitchen diventa completamento della trasformazione”.
A Torino la scelta è caduta sui Fratelli Costardi, già volto della ristorazione d’autore piemontese a Vercelli. Negli ultimi giorni del 2022, sotto la loro guida, è rinato il Caffè San Carlo (chiuso dal 2020), rinnovato nel rispetto degli spazi ottocenteschi dallo studio Lamatilde: caffetteria e bistrot, il locale segue la giornata del museo, restituendo al contempo alla città un luogo che ne ha fatto la storia. Diversa l’atmosfera di Scatto, il ristorante fine dining appena inaugurato negli spazi adiacenti al Caffè. A Napoli, invece, è arrivato Giuseppe Iannotti, chef patron del Krèsios di Telese Terme, all’esordio nel capoluogo campano. Al piano terra di Palazzo Piacentini – ex Banco di Napoli, progettato da Marcello Piacentini, oggi sede delle Gallerie d’Italia in centro città – Luminist è la caffetteria con bistrot del museo, con una cucina che omaggia la tradizione partenopea (il resident chef designato è Antonio Grazioli), in vista del debutto di Toledo 177, ristorante fine dining e cocktail bar (AntHill, il nome) con terrazza panoramica. “La selezione degli chef è frutto di un processo condiviso all’interno della Banca”, sottolinea Coppola, “tra la direzione arte e cultura che rappresento e il settore marketing e immagine, guidato da Fabrizio Paschina. L’obiettivo non è mai quello di affittare uno spazio: vogliamo individuare interlocutori che sposano la nostra filosofia e ci affiancano in una attività votata alla valorizzazione della creatività e della cultura. E proprio con Alessandro Negrini stiamo ragionando sulla possibilità di far incontrare intorno a un tavolo i principali attori museali d’Italia, insieme a chef e ristoratori interessati a tracciare le linee guida per un sodalizio proficuo tra luoghi di cultura e ristorazione, teso a promuovere il talento italiano”. Il 2023 della ristorazione museale italiana si preannuncia avvincente.
LA SITUAZIONE ALL’ESTERO: I MODELLI DA SEGUIRE E LE ULTIME NOVITÀ
Nel cercare il primo esempio di ristorazione museale nella storia, la macchina del tempo ci conduce al XIX secolo. Al Victoria & Albert Museum di South Kensington, Londra, già nel 1857 i visitatori che giungono con le loro carrozze all’ingresso affacciato sul giardino sono accolti da una serie di ambienti adibiti a ristoro. Un allestimento provvisorio, voluto dal direttore dell’epoca, Henry Cole, per incoraggiare la cittadinanza a visitare un luogo di cultura. L’intuizione si rivelerà fondata, e già un decennio più tardi, nel 1868, saranno inaugurati tre saloni riccamente decorati secondo l’eclettismo dell’era Vittoriana – Gamble, Poynter e Morris Room – che daranno al più celebre museo di arti applicate d’Europa il primato per lo sviluppo di un servizio di accoglienza e ristorazione all’altezza della sua missione culturale e coerente con la promozione del design e dell’artigianato di qualità. Tra maioliche dipinte, sfarzosi lampadari, tappezzerie d’autore (al progetto lavora, tra gli altri, William Morris), specchi e suppellettili raffinate, bistrot e ristorante del V&A non hanno nulla da invidiare ai caffè parigini dell’epoca. E una delle sale dispone persino di una griglia a vista per cucinare davanti agli ospiti le pietanze calde. Secondo i dettami del tempo, inoltre, l’offerta gastronomica è articolata in più menu, tra piatti ideati per accontentare i clienti più illustri e formule riservate al personale del museo. La lungimiranza dell’operazione è confermata dalla sua longevità: oggi, chi visita il V&A può ancora godere di questi spazi, rinnovati nel 2006, per sorbire un tè, consumare un sandwich o un pasto caldo.
Ma proprio Londra ha fatto registrare negli ultimi mesi la defezione di un altro ristorante museale di lungo corso, il Rex Whistler della Tate Britain. La decisione è stata sancita senza possibilità di appello nei primi mesi del 2022, in risposta alle polemiche suscitate dalla grande pittura murale realizzata nel 1926 da Rex Whistler (da cui il nome dell’insegna), tacciata di razzismo. Lo spazio riaprirà nel 2023, con una nuova opera commissionata a Keith Piper per spiegare il contesto in cui è maturato il murale degli Anni Venti. Ma il ristorante non sarà ripristinato e il museo provvederà con “soluzioni alternative”.
Eppure, nel mondo, la ristorazione museale può contare su un buon numero di modelli da imitare, peraltro molto diversi tra loro. Si distinguono in tal senso due esperienze di lungo corso: The Modern al MoMA di New York, affidato nel 2005 all’iniziativa dell’Union Square Hospitality Group di Danny Meyer, che qualche anno più tardi provò a replicare al Whitney Museum con Untitled, oggi chiuso; il Nerua del Guggenheim di Bilbao, ristorante aggiunto al bistrot del museo, e con ingresso indipendente, aperto nel 2011 da chef Josean Alija, e presto insignito con la stella Michelin.
Il secondo caso dimostra come sempre più spesso, oggi anche in Italia, si cerchi di concretizzare una sinergia tra istituzione museale e alta ristorazione, che, “ospite” di uno spazio culturale, trova terreno fertile per esprimersi. Succede anche ad Amsterdam, al Rijks, inaugurato nel 2014 nell’ala Philips del Rijksmuseum, che con altri ristoranti museali del Nord Europa condivide l’intenzione di farsi appendice culturale del museo, per educare a conoscere le tradizioni e le radici gastronomiche nazionali (si veda il ristorante Lysverket, presso l’omonimo museo nel polo Kode, a Bergen). Sempre in Olanda, anche l’innovativo Depot Boijmans di Rotterdam ha voluto dotarsi di un ristorante ambizioso, Renilde, sul tetto della struttura specchiata progettata dallo studio MVRDV. Mentre è necessario tornare oltreoceano per registrare la fortunata parentesi del progetto In Situ, concepito come costola gastronomica del San Francisco Museum of Modern Art nel 2016 e sviluppato dallo chef Corey Lee come fosse una galleria d’arte, però dedicata alle creazioni più celebri di noti cuochi internazionali. Ottenuta la stella nel 2019, due anni più tardi il ristorante ha chiuso i battenti, anche per gli effetti della pandemia.
E se in tutto il mondo si rintracciano casi eccellenti di convivenza tra cultura e gastronomia – a Singapore l’Odette della National Gallery è una delle migliori tavole della città –, è la Francia a esprimere nel modo più efficace e compiuto questa tangenza. Seminale l’esperienza del MAC/VAL di Vitry-sur-Seine, dove nel 2005 il ristorante Transversal era guidato da Inaki Aizpitarte. Mentre Parigi, sulla scia di esperienze consolidate come Georges, sul tetto del Centre Pompidou, o il bistrot del Musée d’Orsay, ha visto moltiplicarsi insegne degne di nota all’interno dei musei cittadini, come Le Frank (omaggio a Frank Gehry) alla Fondation Louis Vuitton, Ore di Alain Ducasse a Versailles, Halle aux Grains alla Bourse de Commerce (dall’incontro tra François Pinault e la famiglia Bras, iconica realtà della ristorazione francese). Del resto, la visione francese si esprime anche in trasferta, coinvolgendo sempre personalità di primo piano. Così si spiegano la riproposizione della storica brasserie Fouquet’s (dal 1899 sugli Champs- Élysées) al Louvre Abu Dhabi, in collaborazione con Pierre Gagnaire, e l’arrivo di Ducasse a Doha, per curare il ristorante del National Museum of Qatar, progettato dallo studio Koichi Takada all’interno del progetto sfarzoso di Jean Nouvel.
FLAVIANO CAPRIOTTI PER ANDREA APREA ALLA FONDAZIONE LUIGI ROVATI
Non è nuovo ai progetti dedicati alla ristorazione lo studio di Flaviano Capriotti. Per citare alcuni progetti recenti, andiamo da Mio Lab e Vun, rispettivamente bar e ristorante (quest’ultimo in capo proprio ad Andrea Aprea) del Park Hyatt di Milano disegnati nel 2015, al nuovo ristorante dello stesso hotel, Pellico 3, riprogettato nel 2022. Nello stesso anno, Flaviano Capriotti si è occupato del caffè bistrot (in giardino) e del ristorante (panoramico all’ultimo piano) della Fondazione Luigi Rovati nel capoluogo lombardo.
Com’è stato confrontarsi con un edificio storico per progettare uno spazio che fosse funzionale alla destinazione d’uso di un ristorante, però coerente con l’identità culturale e museale della Fondazione Luigi Rovati?
Ci siamo trovati a progettare due punti di ristorazione su livelli diversi: il ristorante gastronomico è all’ultimo piano, nell’ex sottotetto, uno spazio non nobile del palazzo; il caffè bistrot è al piano terra, spazio nobile di un palazzo storico dalla seconda metà dell’Ottocento, ricco di boiserie e bronzi. Nel sottotetto non potevamo utilizzare materiali sfarzosi, abbiamo concentrato l’attenzione su legno e terracotta, però in connessione con l’identità del museo e con la collezione etrusca, lavorando sul bucchero. Gli etruschi utilizzavano questa cottura in assenza di ossigeno per i loro vasi, al ristorante abbiamo deciso di rivestire le pareti con semicilindri di bucchero, una forma che richiama la tecnica della colombina, usata all’epoca per modellare i grandi orci in assenza di tornio. La stessa forma l’abbiamo replicata per il bancone del bar, però utilizzando il bronzo. Per l’area del bistrot, del resto, abbiamo optato per materiali della tradizione alto-borghese milanese, dal pavimento in seminato alla veneziana al legno di noce, che è il materiale tradizionale della storia della falegnameria italiana, per le pareti.
La progettazione architettonica, in questo contesto, può aiutare a rafforzare la sinergia tra dimensione museale e spazi destinati alla ristorazione? A quale obiettivo deve tendere uno spazio di accoglienza e ospitalità all’interno di un museo?
Il bar-bistrot è un servizio che si offre al visitatore, uno spazio accogliente che riflette lo spirito del palazzo, mentre il ristorante è una destinazione a sé, autonoma. Avere un ristorante all’ultimo piano vuol dire che il cliente, quando arriva, ha già fatto un percorso: entra nell’androne del palazzo, poi accede al corridoio e lì inizia a sperimentare il contesto. Abbiamo utilizzato questo passaggio per far capire a chiunque che si trova in uno spazio di cultura: chi arriva la sera, quando il museo è chiuso, potrebbe non sapere, e allora il corridoio è stato concepito come una galleria d’arte, lavorando in sinergia con la famiglia Rovati. Volutamente lo spazio è neutro, con luce tecnica di qualità museale per dare priorità alle opere d’arte, selezionate dalla collezione Rovati. D’altro canto, era necessario vestire il ristorante sulle esigenze di Andrea Aprea: in sala l’attenzione si concentra sulla cucina, che diventa il palcoscenico di un teatro. E poi c’è il discorso sulla funzionalità: un bar e un ristorante sono spazi di lavoro e di fruizione intensiva, fondamentale pensare al comfort del cliente. Penso alle sedie imbottite realizzate custom sulla necessità di stare seduti tre ore senza stancarsi.
Che ruolo ha giocato il coinvolgimento di maestranze artigianali?
Disporre di maestranze di qualità è sempre importante, la visione particolarmente ispirata della famiglia Rovati ci ha permesso di condurre una ricerca accurata, come nel caso dell’artigiano della Tuscia che ho interpellato per il lavoro sul bucchero.
Il progetto ha beneficiato della collaborazione con gli artisti della Fondazione. In che direzione?
Oltre alle opere del corridoio, il rapporto con la famiglia ci ha permesso di commissionarne altre site specific: per il retro del timpano, al ristorante, la famiglia ha proposto Andrea Sala, che ha realizzato un’opera pensata per resistere alle intemperie e al sole. Al bistrot, invece, abbiamo un acquerello di Mauro Ceulin, che ha lavorato su un foglio di carta prodotto su misura a Fabriano. Senza la collaborazione di una famiglia mecenate, queste connessioni non sarebbero state possibili.
https://www.flavianocapriotti.it/en/home
LAURA SARTORI RIMINI E ROBERTO PEREGALLI PER GIACOMO ARENGARIO AL MUSEO DEL NOVECENTO
Lo Studio Peregalli, composto da Laura Sartori Rimini e Roberto Peregalli, è noto per la sua “invenzione del passato”, come titolava il libro a esso dedicato nel 2011. Nulla di più sfidante, dunque, lavorare all’interno di un edificio museale.
Com’è stato confrontarsi con un edificio storico per progettare uno spazio che fosse funzionale alla destinazione d’uso di un ristorante, però coerente con l’identità culturale e museale dell’Arengario?
In ogni progetto che facciamo, in uno spazio pubblico o privato, il nostro punto di partenza è sempre il confronto con la storia dell’edificio. In questo caso specifico, in cui il luogo ha un’identità museale forte e il dialogo si rende ancora più necessario, la difficoltà maggiore è stata la trasformazione degli spazi concessi dal Comune, spazi di risulta rispetto al museo, con una forma complessa e una loggia aperta, in un luogo che potesse accogliere un ristorante che, oltre a essere funzionale, aggiungesse fascino al museo, dando la possibilità al visitatore di godere della vista del Duomo e della sua piazza da un punto di vista speciale.
La progettazione architettonica, in questo contesto, può aiutare a rafforzare la sinergia tra dimensione museale e spazi destinati alla ristorazione? A quale obiettivo deve tendere uno spazio di accoglienza e ospitalità all’interno di un museo?
Nel resto del mondo la tendenza a creare spazi di accoglienza e di piacere all’interno dei musei è una consuetudine già in uso da diversi anni, basti pensare al MoMA di New York o al Centre Pompidou di Parigi. In questo caso vedevamo una potenzialità nel fatto che il ristorante fosse al servizio del museo, ma, vista la sua collocazione molto peculiare rispetto alla città, volevamo che fosse un luogo attrattivo per i visitatori anche quando il museo è chiuso, con il piano superiore dedicato a Lucio Fontana comunque sempre acceso e visibile dalla piazza, la possibilità di visite serali per piccoli gruppi, eventi speciali, oppure semplicemente respirare l’aura del museo anche durante una cena apparentemente normale.
Quali sono gli elementi caratterizzanti e salienti del progetto sviluppato per il ristorante Giacomo Arengario al Museo del Novecento?
Principalmente è stato un approccio architettonico con la creazione di spazi caratterizzati da lesene in legno ebanizzato e in metallo, soffitti a cassettoni, lacche, pannelli in foglia oro… Ogni angolo racconta una storia che scandisce lo stile di quegli anni. I dettagli preziosi, tra cui le tende di rame pensate come una rivisitazione dei sudaré giapponesi, gli specchi curvi, il brillio dei metalli si integrano in un disegno d’insieme ispirato a un’atmosfera Déco sia milanese che internazionale. Abbiamo immaginato uno spazio che dialogasse con il museo, avendo però una sua vita propria e reinterpretando il periodo storico artistico coevo all’edificio. Ogni ambiente ha una sua personalità. La pittura italiana presente nel museo ritorna qui sotto forma di architettura e decorazione. Così è nata l’idea di creare delle stanze che scandiscono anche le diverse zone del ristorante. Una hall, a tavoli bassi, poltroncine e divani con una decorazione alle pareti a fondo nero con le geometrie care a Jean Dunand. Un bar che, data la grande altezza, abbiamo immaginato costituito da elementi alti, in legno laccato di nero o rivestiti di specchio, che si slanciano verso il soffitto e ricordano le architetture metafisiche di de Chirico e Carrà (servendo a ospitare gli oggetti utili per il servizio) oltre agli archi che omaggiano Portaluppi. Una sala ristorante, omaggio a Loos, rivestita con pannellature di legno dorato e specchi invecchiati e un soffitto a cassettoni che danno un’illusione di uno sfondamento dello spazio. Poi, una galleria aperta sulla cucina con pannellature in lacca rossa degli Anni Trenta e un bancone dove si può mangiare. Infine il dehors, che si trova oltre il bar all’interno della grande loggia affacciata su piazza del Duomo, studiato come una struttura in ferro e vetro, essenziale, una sorta di gabbia nascosta tra gli archi, in equilibrio con l’architettura di Portaluppi.
Oltre alla storia dell’edificio, anche l’identità della collezione del museo ha influenzato la progettazione?
Certamente l’ispirazione è venuta anche dalle opere esposte: de Chirico, Carrà, Sironi, Rosai, tra gli altri. Il lampadario a forma di astrolabio, per esempio, che illumina la zona bar e si vede anche dalla piazza, dialoga con l’installazione al neon di Fontana che si trova al piano superiore. C’è come una vibrazione metafisica, disegnata con un tratto definito e fermo, che percorre tutti gli spazi del ristorante. Volevamo creare una sorta di scrigno, una sorpresa incastonata all’interno del museo e un omaggio a un’epoca che con le sue contraddizioni ha lasciato un forte segno nel nostro tempo.
Livia Montagnoli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70
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