Gita nel paese morto di Castel di Tusa. Antonio Presti e fine del suo Atelier sul Mare
Nel borgo del Messinese, il Museo Albergo Atelier sul Mare ha cessato l’attività, perché in Sicilia “le idee diverse sono pericolose, e allora le ammazzano”, rileva amaramente Antonio Presti. Una storia che racconta di una terra imbrigliata
L’insegna recita Comune morto. La intravedo appena e d’istinto porto il piede sul freno, mentre cerco il cellulare con la mano.
“La F è muta” mi spiega una voce che non assomiglia affatto a quella di Google Maps. Sul marciapiede, un uomo sulla settantina rivolge i pochi denti mangiati dal fumo ora a me, ora al cartellone che gli sta di fianco.
“L’hanno fatta diventare muta” lo corregge un altro poco distante “Era l’unica diversa, e ca i cosi strani un ci piaciunu a nuddu”. Pare più vecchio, direi ottant’anni almeno, e la sedia di plastica che occupa non ha neppure una casa vicina. Mi chiedo se la lasci in strada anche di notte, immagino un tacito accordo tra gli abitanti di Castel di Tusa che assegna a ognuno il suo pezzo di asfalto.
Riporto gli occhi sull’insegna per avere conferma di quello che già sospetto: Comune (f)iorito, annuncia in realtà la scritta a lettere scure. La F era l’unica in rosso ma il colore, ormai, è così sbiadito da renderla visibile a malapena.
Il Museo Albergo Atelier sul Mare a Castel di Tusa
“Sto cercando l’Atelier sul Mare” dico a quel punto. E i due uomini perdono immediatamente ogni interesse in me. Il primo solleva il braccio verso la strada che ho davanti – che poi è la sola percorribile – il secondo afferra un fiammifero e lo avvicina al sigaro spento e fumato per metà.
Avanzo poco, seguita da sguardi più indagatori che curiosi e alla fine bloccata da una transenna che indica l’inizio dell’area pedonale. “Dov’è che vai?”, mi chiede una donna distesa su una sdraio davanti casa.
“Sto cercando l’Atelier sul Mare” dico di nuovo, con un po’ di esitazione questa volta. “E quanto hai pagato per la stanza?”. Per qualche ragione, la domanda mi sorprende senza sembrare impertinente.
“Devo incontrare Antonio Presti, il fondatore” rispondo “L’Atelier ha chiuso”. Ma immagino lo sappia già, e infatti stringe le labbra e annuisce un paio di volte. “Un vero peccato” conclude “Scendi ancora 100 metri, sulla destra ti trovi un parcheggio”. E riporta gli occhi sul Sudoku senza darmi il tempo di dire grazie.
Finalmente raggiungo l’Atelier, un edificio che scopro ricoperto d’edera e circondato ovunque da lunghi manifesti di carta che in grassetto annunciano: CESSAZIONE ATTIVITÀ e poi riportano, subito sotto, la data di apertura e quella di chiusura, 20 maggio 1990 – 14 luglio 2023, la personalissima lapide del Museo Albergo che negli ultimi 33 anni è stato il cuore pulsante di Castel di Tusa (unico nel suo genere, l’albergo-museo d’arte contemporanea è stato progettato interamente dagli artisti, grazie a un’illuminata operazione di mecenatismo; delle vicende che hanno portato alla sua fine abbiamo parlato qui). E che, 33 anni dopo, è il suo stesso popolo a lasciare morire.
Mi affaccio nell’atrio, ritagli di articoli di giornale come carta da parati e il titolo La Sicilia salvata dai cittadini che per qualche motivo è l’unico che leggo; dietro il bancone della reception, un uomo mi sorride cortese mentre mi chiede come può aiutarmi.
È Paolo, da anni collaboratore tuttofare di Presti: “Antonio è molto stanco”, dice senza smettere di guardarmi, come per assicurarsi che io abbia capito. Dondola leggermente la testa, poi punta il mento verso la porta: “È seduto fuori. Qui non entra quasi più”.
Antonio Presti sulla fine dell’Atelier sul Mare
Raggiungo uno dei tavolini nel marciapiede di fronte. Quando mi presento, Presti annuisce e con la mano mi invita a sedere. Mi punta addosso un sorriso tra l’ironico e l’interrogativo. Le pietre tonde e lisce che ci fanno da pavimento sono le stesse che, al di là del muretto, ricoprono la spiaggia; alcune sono tanto grandi da ospitare veri e propri dipinti.
“Come sta?” chiedo, già maledicendomi per non aver preparato delle domande.
“Come uno a cui hanno ucciso un figlio” dice, senza smettere di sorridere “Ma che vuoi, gli omicidi di mafia non sono mica una novità per sta terra. Qui ragionano così: le cose diverse, le idee diverse sono pericolose. E allora le ammazzano”.
“Omicidio, quindi”.
Scuote la testa e il fragore della risata non basta a coprirne l’amarezza.
“Ci hanno provato a farlo, l’omicidio, e io gliel’ho dovuto restituire: loro mi volevano ammazzare e io mi sono ammazzato, invece. Muoio qua ma per volontà mia, e domani rinasco in un altro posto. Se ci pensi, non c’è traccia di morte in questo”.
Mi chiedo se parli di sé o dell’Atelier; mi dico che non fa nessuna differenza.
“Gli ho fatto tanto bene a questo posto” riprende a dire senza sollevare gli occhi “sono 40 anni che campano grazie a me, eppure da quando ho chiuso l’attività nessuno ha detto niente. Neanche uno che si sia esposto. Tutti che si dispiacciono, ma si dispiacciono in silenzio”.
“Però ho pensato a un nuovo slogan” dice “ancora non l’ho detto pubblicamente, ma lo farò. Lo vuoi sentire?”. La voce è rinvigorita, divertita quasi, e gli occhi che mi rivolge pulsano di attesa e vanità. Rispondo con un sorriso incoraggiante. “Ecco, è questo: per 40 anni per voi non sono stato che un seno a cui attaccarvi, senza misura né rispetto; adesso che sono anziano mi pugnalate alle spalle, mi ammazzate il figlio e nessuno parla. Allora sapete che c’è? C’è che col seno mi sono stancato, ho finito il latte, e adesso a voi tocca scegliere un’altra parte a cui attaccarvi. Basta essere un po’ svegli per capire quale”.
Sorride divertito mentre con il mignolo tira a sé il posacenere.
“Questo posto è casa mia, ingrato e omertoso chi ha scelto il silenzio”.
Nel modo in cui lascia cadere le braccia sul tavolo leggo tutta la sua stanchezza. Lo sguardo salta da me alla strada ma non incrocia quasi mai il Museo che ha davanti, come un corpo agonizzante che per pudicizia si evita di fissare.
Un futuro per l’Atelier sul Mare?
“Certo, è un peccato…” inizio a dire, ma vengo interrotta quasi subito.
“A me non interessa proprio. Hanno fatto un omicidio, perché quello che stanno facendo è un crimine, e adesso glielo devo restituire. Quello che ho costruito lo porto da un’altra parte, io artista sono; e credo al valore etico della bellezza ma non così, questo è martirio. Negli ultimi 40 anni, a dire il vero, è stato sempre un martirio: processi, accuse di abusivismo, richieste di pizzo. Ma adesso ne ho abbastanza, tutto questo per me è banale, e allora fine, chiudo tutto. Hanno perso”.
Paolo si avvicina per avvisare di una telefonata, Presti spegne la sigaretta ancora intera e mi rivolge un sorriso frettoloso. “Beh, teniamoci in contatto allora”, mi dice un attimo prima di darmi le spalle.
Lo osservo arrancare verso l’Atelier e per la prima volta lo trovo vecchio. Si ferma per qualche minuto davanti al manifesto all’ingresso, lo sguardo che non posso vedere ma che immagino scavare dentro le parole per dargli un senso. Cessazione attività, ripeto a mezza voce.
Poi scompare, inghiottito da tutti quei ritagli di giornale forse scelti personalmente, da quella Sicilia che i cittadini non sono riusciti a salvare. E io penso che sì, Antonio, hai ragione: hanno perso loro e abbiamo perso pure noi. Alla fine di questa storia, se di fine si può parlare, direi che abbiamo perso tutti.
Giordana Falzea
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