Viaggio a Seoul. La bellezza della semplicità dall’arte alla gastronomia
Un percorso nella capitale della Corea del Sud per capire come la frenesia non abbia impedito di preservare il culto dell’armonia e della semplicità, dall’arte alla cucina tradizionale, all’innovazione tecnologica
L’area metropolitana di Seoul conta 25 milioni di abitanti. Solo il centro della città ne conta 12 milioni. Per strada lo stupore è continuo, camminando sotto i grattacieli illuminati dai Corner Billboard (nuova frontiera dell’advertising, nata qui) che ammaliano giorno e notte. In piena espansione economica, tecnologicamente avanzata, risollevatasi dopo la guerra del Vietnam, la capitale della Corea del Sud vive freneticamente ma in maniera salutare. Non si può fumare neanche all’aperto e i marciapiedi sono lucidati a specchio, come i bagni e i trasporti pubblici. La sicurezza, la pulizia e la cortesia degli abitanti ne fanno un esempio eclatante di consonanza tra tradizione, modernità e senso di civiltà. Persino i taxi hanno i purificatori d’aria contro l’inquinamento che arriva dalla vicina Cina. La Corea del Nord è lontana come la guerra del Vietnam, anche se ancora si avverte un certo rancore verso i giapponesi (dopo la colonizzazione dal 1905 al 1945).
La bellezza del vuoto e la disciplina nella cultura di Seoul
Il vaso Moon Jar, di colore bianco e dalla forma rotonda, è venduto da secoli in diverse dimensioni e rappresenta in tutta la sua semplicità le dinamiche di una cultura che esalta la “bellezza del vuoto” e rifugge l’eccesso e il fatuo in ogni manifestazione (Sotheby’s New York, lo scorso 19 settembre ne ha battuto uno della Joseon Dynasty, XVII secolo, a un prezzo altissimo). Il vaso in questione è dunque uno dei simboli iconici della cultura coreana per quello che rappresenta, per la forma di luna piena e le proporzioni, per le nuances del colore neutro ma profondo, per la sua funzione tradizionale: un oggetto banale, di uso comune, ma prezioso.
Ma anche il cibo può raccontare il senso di disciplina, pulizia e frugalità coreano: la cucina locale utilizza riso, verdure e carne, il tutto accompagnato da molti contorni (Banchan) che arrivano al tavolo in preziose ceramiche prima del piatto principale. Nonostante siano innumerevoli, “il vero pranzo inizia solo quando arriva il riso”. Tra i contorni tipici vi è il kimchi, che fornisce il 50% della razione giornaliera di vitamina C e carotene, a base di aglio, peperoncino, verdure fermentate, spezie e zenzero: è credenza che aiuti i coreani ad affrontare le loro vite frenetiche, tanto che ne mangiano dai 50 ai 200 grammi al giorno. D’inverno si consumano spaghetti di soia con ghiaccio, in estate zuppe bollenti. La Samggyetang (giovane pollo intero farcito con riso cotto per ore) è una minestra rovente servita in un tegame di ghisa per mantenerne il calore, cucinata d’estate per combattere il caldo, ottima per chi ha problemi di stomaco o soffre di sudorazione eccessiva. Il pesce palla (Blowfish) è tra i piatti più ricercati, pochi chef hanno la licenza per togliere le ghiandole velenose: è di carne bianca delicata ma la parte più gustosa è la pelle, molto grassa, alta diversi millimetri, dal gusto dolce, piena di collagene, adatto alla cura della pelle. Un altro stratagemma, oltre alle ambitissime creme naturali qui prodotte e molto meno costose che altrove.
Tecnologia e cultura tradizionale a Seoul
La biblioteca Starfield è uno degli spettacoli architettonici della città: varcata la soglia dell’artificio moderno in cristallo si possono ammirare migliaia di libri ordinati in alti scaffali, a disposizione di tutti. Anche la tecnologia ha bisogno della cultura tradizionale.
Il Bukchon Hanok Village (intatto da seicento anni) è un ritorno al passato con le sue abitazioni Hanok-style (circa 900)dai tetti tradizionali in tegole, strade larghe pochi metri in acciottolato e una moltitudine di shop angusti, dove ogni cosa ha la purezza della semplicità. Dinanzi a tanta bellezza la quiete regna ovunque, nonostante i turisti.
Qui si può comprare un quadro su tela di Kim Soo-Ja per 7mila euro (Gallery Dam) o un mobile in madreperla nello storico negozio autorizzato dal governo JinJooshell. A pochi minuti, si incontra il Changdeokgung Palace, costruito nel XV secolo durante la reggenza imperiale della dinastia Joseon e oggi patrimonio dell’Unesco. Raso al suolo da due incendi durante l’invasione giapponese, fu ricostruito fedelmente. L’ultimo re coreano Sunjong visse qui fino alla sua morte nel 1926. Per pochi won, all’ingresso si può affittare l’abito tradizionale (Hanbok), entrare gratis e farsi ritrarre con l’auspicio che porti a un buon matrimonio.
Il palazzo Gyeongbokung (1934) fu il più grande dei cinque palazzi imperiali, ed è il simbolo della famiglia reale coreana. Nel 1895, dopo l’assassinio della principessa Myeongseong da parte degli agenti giapponesi, suo marito l’imperatore Gojong abbandonò per sempre il palazzo. Bruciato nel 1952 durante l’invasione giapponese, ricostruito negli Anni Sessanta con le sue 5.792 stanze, dal 1972 ospita il National Palace Museum of Korea.
Più controverso l’approccio con il Museo d’Arte Contemporanea Coreana, situato di fronte al museo del Folklore, che fino a febbraio 2024 ospita la mostra dell’artista coreano Kim Ku-Lim (tra i fondatori dell’Associazione dell’avanguardia coreana): assemblaggi di morte, pornografia e violenze con materiali di scarto e ritagli disegnati fanno pensare alla mente ossessionata di un folle.
Cristina Zappa
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