“Il futuro di Torino è Milano” ha recentemente ribadito perentorio Carlo Ratti, prossimo alla direzione della Biennale Architettura di Venezia 2025. Torinese di nascita e formazione, ha però scelto di trascorrere la maggior parte del tempo all’MIT di Boston nel Massachusetts, dove insegna e da dove probabilmente le idee e le visioni percorribili si impregnano di un vigore per nulla familiare ad una città refrattaria a qualsivoglia entusiastico impulso di azione.
Ma Ratti sogna un’unica grande metropoli, “la più grande del sud d’Europa”, unendo per esempio le più alte competenze, il Politecnico di Torino e quello di Milano, dove intanto gli è stata affidata una cattedra di materie fantaurbanistiche(Strategic vision for the building engineering of the future).
Il futuro di Torino
E dunque Torino troverà il proprio senso post-industriale solo “in funzione di”? Cosa peraltro già piuttosto evidente, dati gli infiniti Frecciarossa e Italo che quotidianamente spostano A/R dalle case – a costi fino ad ora accessibili – agli uffici, quei pendolari che “Sì, belli i Navigli, ma i Murazzi erano un’altra cosa”.
E, se anche tra gli infiniti aforismi dell’Avvocato si rintraccia qualcosa che suonava come un inno all’etica del lavoro(“Qui la gente si sveglia pvresto e va a letto pvresto”) ma funziona ancora benissimo per le vite sconfortanti e faticosissime di chi è costretto a dissociare le proprie giornate per portarne a casa una, significa forse che la città ha rinunciato a ritrovare se stessa.
Torino e la sua identità perduta
Lo smantellamento fisico della sede della Fiat – suggellato dagli innesti vegetali di Benedetto Camerana su quello che agli occhi di Le Corbusier fu “uno degli spettacoli più impressionanti che l’industria abbia mai offerto” e che ora assume il sapore della bellezza ruskiniana, selvatica e pre-decadente di un rudere di se stesso – diventa ineluttabilmente semantico. Porta ad un profondo disorientamento e alla domanda “Che città è Torino?” ci lascia senza una pronta risposta.
Lo storytelling di Luca Ballarini
A meno di non rivolgersi a Luca Ballarini, creativo, grafico autodidatta, editore di magazine anticipatori (ricordo ancora il primo numero di Label del 1997 tra gli scaffali della libreria interna alla Facoltà di Architettura) che sarebbero senza dubbio citati tra la coolness dei lifestyle, se solo fossero stati concepiti a Milano. Con un’innata inclinazione non propriamente torinese ai superlativi assoluti, fonda l’agenzia Bellissimo e crea Torino Stratosferica con cui si dedica da tempo al “City Imaging, per costruire un potente racconto di immagini, che esalti il potenziale della città e il suo posizionamento internazionale”. Un indefesso sostenitore dello storytelling in una città dove però da quell’atteggiamento ci si è sempre culturalmente tenuti alla larga, volendosi distinguere dalla cugina Gastone, che invece sullo spirito del marketing narrativo tutto da bere si è autocostruita (e ora autodistrutta).
Torino, nostalgica e poverista
Non tanto falsa e cortese, quanto piuttosto fredda e formale, come rappa Willie Peyote nell’album Educazione Sabauda(traccia: Giudizio Sommario); ancora austera ed elegante. Senza dubbio perbenista e poverista, per cui l’ostentazione è il primo dei peccati, ed il giudizio costante la prima delle tentazioni, Torino sembra saper amare se stessa solo nel ricordo di ciò che è stata (La Capitale, Il Cinema, Il traino del paese, L’Einaudi, la Lotta Continua, Artissima…) trascurando, per incapacità o ignavia, ciò che dovrebbe provare ad essere d’ora in poi.
Ma d’altra parte, parafrasando Spike Jonze, “the future is just a story we tell ourselves”.
Lucia Bosso
A cura di Emilia Giorgi
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