Quali sono i ristoranti più visionari d’Italia al confine tra gastronomia e arte?

Per la prima edizione del progetto Visionary Places, siamo andati alla ricerca di quei ristoranti fuori dal comune, in cui la creatività culinaria e artistica si incontrano per dare vita a esperienze complete e complesse. Ma cosa deve fare un ristorante per essere definito “visionario”?

Intuizione, libertà di pensiero, ma anche coerenza e progettualità. Sono le qualità che alimentano una visione, spesso a partire dalla lettura di una realtà che può suggerire nuove strade da percorrere. Ed è questa la premessa di cui tiene conto il progetto Visionary Places – una dichiarazione di intenti, ancor prima che un premio – volto a individuare e valorizzare chi dall’essere visionario ha tratto beneficio in ambito imprenditoriale, con ricadute positive sull’economia territoriale, il contesto (urbano o ambientale), la comunità. Parliamo, nello specifico, di ristoranti, tornando a concentrarci – dopo la ricognizione sulla ristorazione museale italiana, mappata su queste pagine poco più di un anno fa – su un segmento dello spazio collettivo che, nel focalizzarsi sulle esigenze del cliente, non può più identificarsi solo nella condivisione di buon cibo. 

Cos’è un ristorante visionario?

In questa direzione, un ristorante visionario è un luogo capace di fare stare bene le persone, che declina il concetto di benessere non solo a vantaggio dei commensali, ma anche di chi in quello spazio lavora, fino a contemplare l’impatto del progetto sul contesto sociale e ambientale in cui opera. Dunque, una realtà che investe sul prodotto e sulla tecnica gastronomica non meno che sulle risorse umane e sul design, nel quadro di una progettazione mirata degli spazi. Ecco, quindi, che la sfera d’azione (e d’altro lato, il campo di indagine di chi registra questa dinamica) si amplia a comprendere le discipline dell’architettura e della rigenerazione del territorio – progettando in modo che l’interesse del singolo sia un vantaggio per la collettività – la dimensione storica e l’innovazione tecnologica, sull’orizzonte di un’idea di ospitalità basata sulle relazioni e sull’attivazione di stimoli culturali.

Il progetto Visionary Places, tra gastronomia, arte e cultura

L’operazione Visionary Places, promossa da Artribune insieme a Gambero Rosso e Feudi di San Gregorio (azienda vinicola di Sorbo Serpico, nell’Avellinese, riprogettata come cantina d’autore nel 2004, e promotrice di numerose connessioni con il mondo dell’arte), nasce nel 2024 con una prima edizione che individua i dieci ristoranti più visionari d’Italia, e per tre di loro decreta un piazzamento sul podio. La selezione ha potuto contare su un comitato costituito da rappresentanti del mondo dellagastronomia, dell’arte e della cultura: oltre a Gambero Rosso e Artribune, l’artista e appassionato “conoscitore” enogastronomico Gabriele De Santis, l’AD di MondoMostre Simone Todorow, ed Emilia Petruccelli, co-fondatrice di Galleria Mia a Roma e fondatrice di EDIT Napoli. Per Feudi di San Gregorio riassume il senso dell’iniziativa la direttrice creativa del gruppo, Ella Capaldo: “Non è sufficiente cucinare bene; contano la ricerca, la capacità di stabilire relazioni con il contesto locale, la bellezza, parola sottovalutata ma importante, che alimenta un posto vivo e dà sollievo e stimoli a chi nel ristorante lavora ogni giorno”.
Corrobora il concetto Marco Mensurati, direttore di Gambero Rosso: “Quando ci siamo chiesti quali caratteristiche dovesse avere un locale per essere visionario, ci siamo trovati di fronte alla difficoltà di circoscrivere tutto in poche righe: è evidente che essere visionari può avere mille e più risvolti diversi. Sono tantissimi i locali meritevoli per qualità della cucina, visione, originalità, coerenza. Una lista potenzialmente molto più lunga di quella che ci siamo obbligati a limitare, che copre in modo capillare tutto il territorio”.

Il giro d’Italia in dieci Visionary Places

Il cerchio si è stretto su dieci realtà che esprimono i valori contenuti nel manifesto. Diverse, come si diceva, per posizionamento geografico e contesto territoriale di appartenenza, orizzonte gastronomico di riferimento e ambizioni. Si evidenziano, però, anche dei temi ricorrenti: la qualità progettuale degli spazi, la capacità di distinguersi anziché seguire le mode, la responsabilità sociale e ambientale, l’atteggiamento prensile verso le sollecitazioni di altri mondi e discipline, la cura. 
Così si compone la decina, a partire dal vincitore della prima edizione – Luminist, avamposto gastronomico delle Gallerie d’Italia a Napoli, a proposito di ristorazione museale – che condivide il podio con secondo e terzo classificato, rispettivamente il SanBrite di Cortina d’Ampezzo e IO Luigi Taglienti di Piacenza, nato in sinergia con la galleria d’arte e design Volumnia. Gli altri nomi – pari merito – toccano nord, centro e sud della Penisola, città e località di montagna o rurali: AlpInn a Plan de Corones (BZ), Ristorante Torre in Fondazione Prada a Milano, Il Sale di San Vincenzo (LI), Arnolfo a Colle Val d’Elsa (SI), Mazzo e Ninù a Roma, Vettor a Bari. 

Giuseppe Iannotti. Photo Alberto Blasetti
Giuseppe Iannotti. Photo Alberto Blasetti

Luminist, il ristorante vincitore della prima edizione di Visionary Places

Luminist è il brutto anatroccolo che diventa cigno” spiega Giuseppe Iannotti, chef patron dell’insegna vincitrice “Il fine dining è sempre stato nelle mie corde, Luminist ha rappresentato una sfida a confronto con una città che ha molte facce, suggerendo una visione diversa di ristorazione nel contesto di via Toledo, affollata di formule street food senza troppe ambizioni. E invece con Luminist dimostriamo che la qualità può essere applicata ai grandi numeri, senza scendere a compromessi, impostando degli standard alti, lavorando per la città, conquistando prima la platea locale, per poi attrarre anche un turismo in cerca di spazi dove stare bene. Con il sostegno di un gruppo che agisce da mecenate, sostenendo la nostra caparbietà con investimenti seri”.

Spinaci, banana, ostrica, musetto di maiale, IO Luigi Taglienti, Piacenza. Photo Fausto Mazza
Spinaci, banana, ostrica, musetto di maiale, IO Luigi Taglienti, Piacenza. Photo Fausto Mazza

Gli altri gradini del podio

Anche a Piacenza, dove si scopre il terzo classificato, fondamentale si è rivelata la comunione di intenti tra una mecenate illuminata – la gallerista Enrica De Micheli – e lo chef Luigi Taglienti: “Piacenza non è una città semplice, e la progettualità di Volumnia, nel recuperare la chiesa di Sant’Agostino per farne uno spazio dedicato al design, è stata visionaria” spiega Taglienti “Io ho portato la mia visione, legando un concetto di soft gourmet, alimentato da una seria ricerca gastronomica, a un servizio più snello. Il cibo è un elemento importante, ma qui ci sono altri contenuti che offrono un’esperienza diversa: chi visita la galleria si sorprende nel trovare una tavola coerente con il contesto e concreta, all’interno di uno spazio che è magnifico. Galleria e ristorante procedono in sinergia, condividendo una visione, ma mantenendo la propria autonomia. E avere la possibilità di lavorare nella bellezza alleggerisce anche l’impegno della squadra: c’è una bella energia”. Raggiungere il SanBrite – secondo classificato – tra le montagne di Cortina d’Ampezzo apre una prospettiva ulteriore sul tema della visionarietà: “La mia cura è essere in contatto con la materia che poi lavorerò, vederla nascere, toccarla, farla crescere, darle l’importanza che merita” racconta lo chef Riccardo Gaspari, per cui “mangiare significa sentire la montagna. Ed essere miei ospiti significa darmi la possibilità di costruire la mia eredità”.

Livia Montagnoli

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