Il piffero delle Quattro Province. Storia di uno strumento mitico al centro della cultura dell’Appennino
Ha origini antiche il flauto che da secoli si costruisce e si suona nell’area appenninica condivisa tra le province di Alessandria, Genova, Piacenza e Pavia. Ma è ancora vivo nella cultura locale, e ispira artisti e festival
È una storia fatta anche di personaggi leggendari, quella del piffero delle Quattro Province, entrato nel mito della cultura appenninica nei territori di confine amministrativamente ripartiti – come dice il nome – tra le quattro province di Piacenza, Alessandria, Genova e Pavia.
Il piffero delle Quattro Province. Tra storia e leggenda
Si narra, per esempio, a proposito del celebre e irrequieto pifferaio Draghin, vissuto nel XIX Secolo, che prigioniero a Bobbio fosse stato capace di costruirsi da solo un piffero, per dimostrare ai suoi carcerieri che non si trattava di un oggetto di origine diabolica. Spesso, i suonatori che si muovevano attraverso i crinali delle Quattro Province per allietare le comunità contadine non erano visti di buon occhio dai preti locali, che mostravano ostilità verso qualsiasi forma di festa che non fosse religiosa, balli tradizionali compresi. Di pari passo cresceva, invece, la fama di alcuni pifferai particolarmente estrosi, in grado di regalare qualche momento di svago. Draghin, figura quasi mitologica eppure realmente esistita (apparteneva alla famiglia di Suzzi, in Val Boreca, come riporta Claudio Gnoli, autore tra i principali esperti in materia), sembra fosse uno di loro: leggenda delle valli vuole che detenesse la “chiave”, il segreto dell’arte dei pifferai, tramandato di maestro in allievo. Viaggiò molto, fu catturato a Cicagna e suonò diverse volte a Milano, dove secondo la tradizione sarebbe morto.
Il piffero delle Quattro Province. L’abilità artigiana
Come i suonatori, anche i costruttori del piffero delle Quattro Province dovettero godere, specie nel XIX secolo, di una diffusa reputazione. Abili intagliatori di legno – materiale di cui è fatto il piffero, generalmente in legno chiaro di bosso, o nella variante di ebano nero –, di alcuni di loro si tramandano nomi e cognomi. Da Ferdinando Cogo, costruttore di Cantalupo Ligure (Val Borbera), appartenente a una dinastia di esperti falegnami del paese – la sua bottega lungo la Via del Sale, nell’Ottocento, fornì grandi suonatori del tempo – a Nicolò Bacigalupo (U Grisu), costruttore di Cicagna (val Fontanabuona), che a cavallo tra XIX e XX Secolo contribuì a fissare forme e misure standard per lo strumento. Il suo laboratorio si conserva intatto per merito di Ettore Guatelli, cultore di vecchi oggetti a Ozzano Taro (a lui è intitolato il Museo Guatelli di cultura popolare nel borgo del Parmense, dotato di una Stanza della musica). Più di recente, a testimoniare il persistere di una tradizione ancora in vita, si ricordano artigiani della Val Trebbia come Giovanni Agnelli ed Ettore Losini.
Il piffero delle Quattro Province. Le origini dello strumento
Questo per inquadrare un fenomeno tradizionale che ha avuto origine in un passato lontano – l’uso popolare dei pifferi, nell’Italia settentrionale, tra Liguria e Lombardia in particolare, si diffuse a partire dal XVII secolo, come mostrano alcuni dipinti del tempo: si vedano i quadri di genere di Bernardino Strozzi, a Genova – eppure si conserva tenace nell’area delle Quattro Province di oggi, con i suoi riti e i suoi protagonisti.
Il Piffero delle Quattro province (in Sol, ad ancia doppia) si fa risalire alla diffusione nell’Europa medievale dell’oboe a alla presenza della cosiddetta ciaramella nell’Italia nord-occidentale del tempo. Parente della bombarda bretone, è composto da una canna lunga e stretta, con una bocca all’estremità superiore e un foro per la soffiatura nella parte inferiore. La canna può essere decorata con intagli e incisioni, spesso raffiguranti animali o motivi floreali. Solitamente suonato insieme alla cornamusa appenninica (la musa, oggi sostituita dalla fisarmonica), per secoli ha accompagnato la musica e le danze tradizionali locali, soprattutto nell’Oltrepò pavese. E alla fine degli anni Novanta ha vissuto una riscoperta, in quanto elemento distintivo del patrimonio culturale di un territorio che pur amministrativamente diviso rivendica una storia comune. Da allora, il piffero delle Quattro province è stato oggetto di festival e concerti dedicati.
La riscoperta del piffero delle Quattro Province. Una storia attuale
È ancora Claudio Gnoli, nel libro Coi nostri strumenti, a circoscrivere lo scenario contemporaneo: “Abbiamo notizia di una scuola di maestri pifferai che hanno trasmesso oralmente la loro arte fino ai suonatori contemporanei. Costoro guidano tuttora le feste dei paesi delle alte valli”, tra antichi canti come le bujasche e gli stranot e danze (piana, alessandrina, monferrina, giga a due, giga a quattro, povera donna, perigordino, polca a saltini, mazurca, valzer). “L’elemento più originale nella tradizione popolare delle Quattro Province” scrive Gnoli “è infatti la presenza di strumenti ad aria messi a punto e praticati esclusivamente qui, da diversi secoli, da artigiani e suonatori locali. Il piffero, la musa e per certi aspetti anche la fisarmonica rappresentano elementi fortissimi di appartenenza a una cultura tradizionale che trova una sintesi espressiva nei momenti comunitari”. Come la festa del matrimonio, “rappresentato in forma allegorica nella mascherata che culmina con la danza della povera donna”.
A tramandarsi, in parallelo, è stato il bagaglio di abilità artigianali dei costruttori e di competenze tecniche dei musicisti, capaci di aggiornare il repertorio musicale senza stravolgerlo. Tra i protagonisti del presente c’è un musicista come Stefano Valla, originario di Cegni, che ha raccolto l’eredità di un altro noto pifferaio del borgo pavese, Ernesto Sala (scomparso nel 1989). Valla oggi suona il piffero – costruito da Stefano Manovani – in formazione con Daniele Scurati, che lo accompagna con la fisarmonica: la loro attività è volta a mantenere viva la musica e la cultura di tradizione orale delle Quattro Province e a stimolarne la diffusione attraverso, concerti, dischi, stage e conferenze. Così, mentre continua a esibirsi in occasione di feste patronali, carnevali ed eventi locali, il duo è protagonista di rassegne e iniziative musicali in tutta Italia e all’estero. Perché la loro musica, spiegano, è locale ed europea insieme. E la storia lo conferma.
L’Appennino Festival e il turismo lento nelle Quattro Province. Attraverso la musica
Ma l’impegno a preservare il patrimonio di tradizioni e rituali locali che passa attraverso la musica è portato avanti, ormai da più di vent’anni, anche dall’Appennino Festival, ideato da Maddalena Scagnelli e Franco Guglielmetti per coltivare la cultura di un territorio di frontiera con un evento diffuso e itinerante, che dalla marginalità trae valore. Entrambi appassionati di musica antica e tradizioni popolari, i due hanno dato vita a una manifestazione che mentre recupera i repertori musicali medievali e i canti corali fa scoprire le bellezze storiche, artistiche e paesaggistiche del territorio, come il Monastero di San Colombano in Val Trebbia o la natura selvaggia della Val Boreca. Il Festival è iniziato nel 2002 con un cartellone di eventi musicali organizzati lungo il crinale dove convergono la Val Boreca (Piacenza), la Val Borbera (Alessandria) e la Val Staffora (Pavia). Nel tempo si è evoluto, supportando lo sviluppo turistico di territorio ancora poco conosciuto, propiziando performance in quota sui pascoli, o nei boschi, con la musica popolare (anche da altre regioni d’Italia) a fare da collante. “Fin dall’antichità le valli dell’Appennino Nord Occidentale connettono il mondo continentale europeo con il Mediterraneo attraverso le antiche Vie del Sale e la Via Francigena, con le sue varianti tra le quali la Via degli Abati” spiegano gli organizzatori “Questo paesaggio fisico trova riscontro in un paesaggio sonoro di grande vitalità e bellezza che annovera numerose forme di danza e stili di canto peculiari, strumenti originali”. Un manifesto del Festival in attesa di scoprire il programma dell’edizione 2024, che si terrà dal 30 luglio al 22 settembre.
Livia Montagnoli
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