Andrea Branzi, in uno dei nostri dialoghi, aveva identificato precisamente Prato come l’origine della città continua e omogenea, la città potenziale che, una volta deterritorializzata dal contesto originario, si trasforma in un’astrazione capace poi di riterritorializzarsi in nuove geografie, storie e contesti. È in questa circolarità radicale – che inquadra Prato sia come la genesi poi astratta sia come l’espressione concreta della No-Stop city – che si definisce il senso e la forma del suo spazio urbano. Si tratta di una forma del possibile, al contempo storica e visionaria, teorica e iper-reale. Una città che emerge come fosse dotata di un’epigenesi sdoppiata, con un’incessante capacità di auto-ridisegnarsi ciclicamente, che trova nel continuo dinamismo il proprio equilibrio.
Il paesaggio urbano di Prato
In questa oscillazione, la sua costruzione tangibile si manifesta in spazi molecolari. Prato si configura infatti quasi come diverse città dentro una città, come una proliferazione di spazi poliedrici, non finiti ed enunciativi piuttosto che esplicativi e determinati.
Come città proteiforme, l’intreccio di queste componenti plurali, apparentemente autonome ed eterogenee, la rivela tuttavia come una città relazionale, definita da connessioni intangibili ma pervasive. È una città insieme polimorfa ma irriducibile, concatenata, che accoglie in modo globale i suoi abitanti, compresi quelli appartenenti al mondo naturale. Queste spazialità diffuse hanno come fine non la definizione stabile di una forma, ma sono luoghi destabilizzanti e resilienti, capaci di innescare nuove relazioni inaspettate, distanti dai principi d’ordine novecenteschi e dalla tradizionale “messa in posa” dell’urbano. Come se il carattere della città fosse giocato non solo nella risoluzione del qui ed ora, ma in un tempo che non conosciamo.
Prato organismo vivente
Le operazioni urbanistiche in atto si contrappongono allo sviluppo urbano canonico e sono fuori dalla logica del protocollo: da un lato, si assiste ad un innesto sottrattivo e di fenditura al corpo dell’architettura, con la Natura intesa come nuovo “vivente” (Emanuele Coccia, 2019) urbano; dall’altro, l’entropia diventa un principio strategico, attraverso un’economia basata sul riuso e lo scarto, come ricorda anche Malaparte in Maledetti Toscani. Queste tassonomie si specificano in dispositivi ancora più instabili – dagli spazi dei Macrolotti in fase di forestazione alle matasse di cardato che vanno e vengono – ma che riconducono i termini ecologia ed economia alla loro radice comune. Sovvertendo le logiche urbane convenzionali, l’apertura al mondo naturale e all’entropia, si genera nella città una topologia discreta e indeterminata, globale e locale, che produce nuovi pattern senza figure, misure multiple e differenziate, a-scalari, che interagiscono con la costruzione solida della città storica, creando nuove spazialità spiazzanti, eterogenee, dissimili ma co-esistenti. Nel contesto della scienza della pianificazione, è la costruzione della città attraverso categorie propositivamente “deboli”, con fondamenti basati sul pensiero della differenza e della pluralità.
Prato senza regole
Prato è quindi un luogo che evita regole a-priori, accogliendo intrusioni, incidenze. In un certo senso, è lo specchio concreto di ciò che Latour affermava nel 2020 a proposito di Gaia: “Più impariamo a ragionare Gaia, più si accresce l’eterogeneità della Terra. Dire che una zona è eterogenea significa insistere ancora una volta sulle preoccupazioni generative e sulla mescolanza degli esseri da cui dipende la sua abitabilità a lungo termine. È quindi necessario inventare modelli ad hoc, adattati a ogni fenomeno e praticamente a ogni sito, fino a fare l’inventario di tutti i vari intrecci”. Come intreccio latouriano, Prato si avvicina ad un oligopticon, uno spazio concettuale e materiale in cui mondo e pensiero transitano senza mai cristallizzarsi, dove l’instabilità conduce alla neutralizzazione di ogni fissazione, sia ideologica che formale.
Elisa Cristiana Cattaneo
A cura di Emilia Giorgi
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