Dipingere il silenzio. Antonio Donghi in mostra a Roma
Tra i maggiori interpreti del realismo magico italiano, Donghi è al centro di una mostra a Palazzo Merulana, incentrata sull’evoluzione stilistica e tematica del pittore romano
Un giusto risarcimento quello che l’esposizione alla Fondazione Cerasi di Palazzo Merulana tributa ad Antonio Donghi (Roma, 1897-1963), raffinato pittore, interprete di un linguaggio apparentemente algido e distaccato, che nel saggio del curatore ritrova una corretta collocazione critica. Attraverso il salone, una selezione delle migliori scuole romane tra le due guerre introduce alla mostra dell’esponente di quel realismo magico coniato in ambito tedesco e poi assegnato negli Anni Venti da Massimo Bontempelli ad alcuni pittori. Le sale anguste si prestano ad accogliere lavori adatti al collezionismo privato e rappresentativi di una Roma popolare e borghese, con aspirazioni moderniste e internazionali.
La mostra di Antonio Donghi a Roma
Le 34 opere, a partire dal nucleo museale, testimoniano con smagliante evidenza quel passaggio – focus critico della rassegna – che vede Donghi abbandonare una stesura convenzionale, legata al paesaggio ottocentesco di matrice impressionista: alla fine del ’22, nel giro di pochi mesiegli si orienta verso un carattere inedito e originalissimo che sotto la locuzione bontempelliana lo consegna dalla critica alla storia. Si indaga la temperie culturale che orienta il suo pennello, stimolato sia dalle fonti classiche che innervano gli avanguardisti del tempo, sia dalle sollecitazioni che animano la mondanità culturale della capitale: il Caffè Aragno, ritrovo dell’intellettualità, la galleria dei fratelli Bragaglia e le loro “Grotte” in via degli Avignonesi, luogo di sperimentazioni, teatro, serate movimentate e incontri folgoranti. Donghi è anche attratto dal cinema muto e dalle feste di piazza, dall’avanspettacolo e dal teatro comico e surreale dei grandi Petrolini e Campanile. Eppure la sua vicenda storiografica non è coerente, e gli studi lo accantonano fino agli Anni Ottanta per poi circoscriverlo in alcune categorie critiche, quali un carattere ‘gentileschiano’ già individuato da Roberto Longhi.
La svolta nella pittura di Antonio Donghi
L’esposizione dà conto della maturazione repentina, che dalle vedute romane a macchia ottocentesca, cambia marcia e vede nascere quel capolavoro di moderna classicità che è il dipinto intitolato Le lavandaie, primo atto di un linguaggio dall’indiscutibile identità. Solo allora appaiono sulla scena le sue donne, bloccate in un’immobilità astratta ma carnale e dolce, umana con una dimensione di assoluto.
Del conquistato stile, la mostra schiera lavori tra il ‘23 e il dopoguerra: scorci romani cristallizzati da un colore senza ombre, ritratti di gentiluomini, popolane intente ai lavori e ferme in una posa istantanea, signorine borghesi composte, malinconiche e sfuggenti, battute di caccia, nature morte e quel mondo ai margini di saltimbanchi, giocolieri e guitti. Un’umanità varia di figure immobili ed espanse ma amabilmente vive e palpitanti.
La pittura e la carriera di Antonio Donghi
Il saggio illumina sia le fonti della sua classicità – da Giotto ai primitivi e Raffaello, certo manierismo, secentisti italiani e olandesi – sia i contemporanei che contribuisco alla svolta: soprattutto Ubaldo Oppi, Felice Carena, Felice Casorati, Ugo Ojetti, Bragaglia e Bontempelli. La carriera del Donghi maturo si articola tra mostre, la Biennale Romana del 1923 e Quadriennale del 1935. Dal 1939, docente di Tecniche pittoriche all’Istituto Centrale del Restauro, stempera quel tecnicismo astraente: ne sono testimoni alcuni paesaggi in punta di pennello degli Anni Quaranta e Cinquanta.
Molti e convincenti i confronti proposti nel catalogo che chiarisce anche come ogni sua rielaborazione sia scevra da indugi stilistici o citazionismi. La freschezza delle sue invenzioni allude a una tradizione solida e feconda ma rappresenta, con una vivezza senza pari, il carattere e le aspettative di una società nuova, tradizionale e moderna, forse fiduciosa in un futuro che purtroppo gli eventi hanno tradito.
Francesca Bottari
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